di Elena Borravicchio
In 19 anni di attività, prima come servizio attivo, poi come responsabile del Centro Antonia Vita (ne abbiamo già parlato qui), Simona Ravizza ha potuto osservare da vicino l’evoluzione sociale della nostra città: “I grossi problemi che si delineano oggi sono tre: innanzitutto il modello societario.
Sono fermamente convinta che il modello imposto, che fa della scienza, del raziocinio il valore assoluto sia disfunzionale, schiaccia i soggetti deboli. Oggi viviamo in tecnocrazia. Il nostro compito educativo è tenere i ragazzi nel concreto del mondo di oggi, non permettere che se ne estranino, creare una possibilità concreta di cavarsela, di farcela.
Un’altra istanza in difficoltà è la famiglia. Dal 1999 al 2010 le famiglie sono cambiate: la mancanza di lavoro ha reso instabili i processi e minacciato la tenuta dei legami; manca integrazione sociale. La povertà è cresciuta moltissimo. Fino a pochi anni fa erano la minoranza le famiglie segnalateci dai servizi sociali: il nostro impegno era essenzialmente di sostegno alla didattica, oggi invece le difficoltà socioeconomiche riguardano la maggior parte dei casi.
Infine, una questione cruciale è quella multiculturale: la percentuale dei ragazzi stranieri dall’inizio ad oggi è costante, si attesta intorno al 20/25%, di questi, il 99% arriva su invio istituzionale, da parte dei Servizi Sociali e della Scuola. E’ cambiata molto, invece, la composizione delle nazionalità di provenienza. Ciò comporta che dobbiamo spostare il paradigma, dobbiamo chiederci “cosa significa accoglienza oggi?”. Per esemplificare dico sempre: trent’anni fa abbiamo avuto l’ondata di immigrati dal Maghreb e abbiamo imparato a fare il “cous cous”; poi c’è stata l’ondata dall’Est Europeo e abbiamo imparato a fare il “gulash”; poi sono arrivati ragazzi dal Camerun, dal Senegal, dal Bangladesh, dal Sud America, dalla Cina: cosa dobbiamo imparare a fare ora? Avevamo un approccio tendenzialmente teorico: ci preparavamo ad accogliere la diversità studiando la cultura che arrivava. Ora le cose sono cambiate, non possiamo immaginare di avere un mediatore culturale per ogni nazionalità: rischieremmo di ottenere il risultato paradossale di una eccessiva parcellizzazione e dell’isolamento, il contrario di quello che vogliamo. La sfida è aperta e si vince con professionalità e motivazione”.
Motivazione che, come agli inizi dell’”Antonia Vita” porta a innovare con creatività, rendendosi conto, attraverso un accompagnamento capillare, delle reali esigenze dei ragazzi. Nacque così, per esempio, il progetto di “adozione in vicinanza”, un’interessante iniziativa a sostegno dell’avviamento al lavoro dei ragazzi della scuola popolare, per l’acquisto dei materiali necessari a frequentare con profitto un corso professionale o a iniziare un’esperienza lavorativa.
Anche sul fronte scuola Simona Ravizza ha le idee chiare: “Aver innalzato l’obbligo scolastico a 16 anni e quello formativo dai 16 ai 18 anni ha complicato le cose. L’obbligo formativo non è coercitivo e invece l’obbligo scolastico sì; perciò, una volta compiuti 16 anni e un giorno, la scuola è autorizzata a disinteressarsi dei ragazzi. Coloro che hanno faticosamente raggiunto la terza media è impensabile che tornino in classe, tutte le mattine per sei ore, con ragazzi più giovani di loro, ed assolvano l’obbligo formativo. Ciò comporta, nella maggior parte dei casi, che si debbano rassegnare a ‘perdere tempo’ fino al compimento della maggiore età, per poter frequentare dei corsi professionali serali e incominciare a lavorare. Nel sistema c’è un buco: prima era meglio, non c’è dubbio! Non è stato pensato: abbiamo scelto l’istruzione e dimenticato l’educazione. Eppure, la Convenzione sui diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, agli articoli 28 e 29, sancisce chiaramente il diritto all’educazione, non all’istruzione”
Attività del centro nel dettaglio
L’educazione è centrale all’Antonia Vita, dove gli educatori affiancano i ragazzi con competenza professionale e attenzione personale. I servizi che offre il Centro sono tre: la scuola popolare, la semi residenzialità e il doposcuola.
La scuola popolare, che ha formato negli ultimi dieci anni 166 allievi, si rivolge a ragazzi che non hanno conseguito il diploma di Terza Media, perché pluribocciati o “grandi assenti” da scuola, segnalati dai Servizi Sociali. La scuola lavora in accordo con l’Assessorato all’Istruzione e con le scuole del territorio: gli alunni rimangono iscritti nel loro istituto di provenienza e svolgono lì le verifiche intermedie e l’esame finale. E’ un aspetto importante perché, dopo, i ragazzi si reinseriscono nel sistema scolastico. Gli iscritti attuali sono 14, di età inferiore ai 17 anni. Le lezioni ed i laboratori pratici (cucina ed elettrotecnica, per esempio) sono tenuti, in gruppi omogenei per livello di preparazione, dagli educatori Cecilia e Carlo e dai volontari; questi ultimi insegnano per materia, in rapporto con gli allievi di 1/1 o 1/2.
Un altro servizio offerto è quello della semiresidenzialità, che si rivolge a ragazzi che vivono in contesti fragili e si incentra sulla relazione significativa con l’educatore. I posti sono circa 15, e il rapporto numerico tra operatori e utenti è molto alto, come minimo di 1/6. I ragazzi sono inviati al Centro dai Servizi Sociali, e vi si recano tutti i giorni: arrivano per il pranzo e si fermano il pomeriggio, per tre ore o più. L’ambiente che si offre loro è quello familiare di una casa: ci sono una stanza con la tv, la cucina e una stanza nella quale studiano. L’equipe è formata da tre educatori, sempre in servizio contemporaneamente, Valentina, Dino e Federico, più la coordinatrice Simona. I ragazzi hanno dagli 11 ai 15 anni e si dedicano all’attività didattica e a quella più strettamente educativa, che si traduce nel rapporto personale con l’educatore e nelle attività trasversali proposte, come il teatro, la musica e varie altre, a seconda dei periodi.
Il terzo ambito dell’associazione è il progetto “Gioca le tue carte”, che si sviluppa su due aree: quella scolastica e quella propriamente educativa. L’area scolastica si sviluppa dalle 14.30 alle 16.30: in questo orario, i 15 ragazzi iscritti fanno i compiti, aiutati dagli educatori Alba e Mirko e da circa 50 volontari, tre volte la settimana; poi, dalle 16.30 alle 18.30, seguono le attività ad accesso libero: laboratori e attività sportive, mma (arti marziali miste), teatro, rap, giochi di ruolo. Fondamentale è il lavoro sul gruppo, la parte più spiccatamente educativa: i temi che si affrontano sono il rispetto degli altri, lo stare bene insieme, le dipendenze, le diversità di genere, l’affettività, la sessualità.
“E’ incredibile come l’incontro tra culture diverse possa far nascere incomprensioni e creare confusioni anche a partire da un gioco innocente come può essere ‘bandiera’ – spiega l’educatrice Cecilia – in certe culture, una ragazza adolescente è quasi considerata in età da marito e non la si può sfiorare, neanche nella dinamica del gioco, e questo può mandare in crisi un ragazzo”. Un altro nodo problematico è certamente il web. Il mondo virtuale crea dei vortici pazzeschi – racconta l’educatore Carlo – i ragazzi oggi hanno paura di affrontarsi faccia a faccia e si nascondono dietro a una maschera, a un’immagine artefatta di sé che li tutela ma allo stesso tempo li falsifica pericolosamente”. “Vedo in loro una fragilità personale molto importante – continua Cecilia – sono ragazzi bloccati, con difficoltà psicosociali gravi. Ci sono ragazzi oggi che non riescono ad alzarsi la mattina e uscire di casa per andare a scuola; fino a pochi anni fa questo non capitava”.
Infine una quarta equipe, composta dalle educatrici Erica e Laura, si occupa dell’assistenza domiciliare presso le famiglie degli utenti del centro.
Una radicata convinzione accomuna tutti gli educatori e continua a ispirare il loro operato nonostante le difficoltà: “Se investi nel risultato perdi, se investi nel processo non perdi mai”. E il processo, il lavoro stesso degli operatori lo dimostra, vale la pena anche se dovesse aiutare a “fiorire” un solo ragazzo, che ha incontrato qualcuno che ha creduto in lui. “Perché i ragazzi sono così – chiosa Simona – ti stupiscono: fioriscono anche sul cemento”.