Foibe: “l’imperdonabile orrore”

di Marco Riboldi

Con questi termini l’allora presidente Giorgio Napolitano celebrò nel 2007 il “Giorno del ricordo”, istituito nel 2004 perché il 10 febbraio di ogni anno si ricordino le terribili vicende avvenute sul finire del secondo conflitto mondiale nelle zone della Venezia Giulia, del Quarnaro e della Dalmazia.

Fare la storia di queste zone ci porterebbe molto indietro nel tempo e nel mezzo di scontri etnici ricorrenti. Ci limitiamo perciò al periodo che va, grosso modo, dal 1943 in poi e a qualche cenno sugli anni precedenti che serve a capire un po’ meglio le vicende.

Dopo la fine della prima guerra mondiale, l’Italia ottenne alcuni territori in Istria e Dalmazia (anche se meno di quanto previsto: si pensi alla controversia su Fiume) che, dopo vari perfezionamenti diplomatici e relativi trattati internazionali, portarono dentro i confini nazionali una serie di città, di isole, ma soprattutto circa mezzo milione di cittadini di etnia e lingua slave.

Il periodo fascista vide una forzata “italianizzazione” di queste zone, con la prevalente attribuzione di uffici pubblici ai cittadini di etnia italiana, il divieto di insegnamento delle lingue croata e slovena e una generale repressione dell’elemento etnico slavo.

La guerra mondiale e l’occupazione delle zone della Jugoslavia da parte di forze tedesche e italiane peggiorò la situazione, che divenne ancor più esplosiva quando si sviluppò un forte movimento di resistenza dai connotati insieme politici ed etnici.

Senza entrare in particolari, diciamo che si possono trovare molte testimonianze di episodi che ben si possono definire crimini di guerra (deportazioni, stragi di civili, fucilazioni di massa ecc.).

Questo lo sfondo storico che ci porta al periodo dal 1943 al 1945.

Quando l’esercito italiano venne meno, con l’armistizio del giorno 8 settembre, le forze partigiane iniziarono una serie di violente repressioni che colpivano non solo rappresentanti del governo fascista precedente, ma anche cittadini che avevano la sola colpa di essere esponenti di rilievo della comunità civile italiana o di rappresentare, agli occhi dei partigiani di ispirazione comunista, un potenziale ostacolo alla realizzazione della futura Jugoslavia socialista.

Improvvisati tribunali del popolo decisero con processi sommari di comminare centinaia di condanne a morte, per lo più eseguite rapidamente e spesso terminate con la “infoibazione”, cioè gettando i cadaveri ( e talvolta anche le persone ancora vive) nelle foibe, le profonde fosse carsiche che sprofondano per decine di metri nel suolo.

La guerra tra il 1944 e il 1945 fu feroce: le truppe naziste e i partigiani del maresciallo Tito si affrontarono aspramente, con gravi perdite da entrambe le parti.

A partire dal novembre del 1944 la Dalmazia venne abbandonata dai tedeschi e cominciò la repressione dei partigiani comunisti: la città di Zara, per esempio, vide uccidere circa 200 persone con metodi anche particolarmente brutali (annegamento in mare, per esempio, dove le vittime venivano gettate, legate a grossi sassi ).

Ancora peggio doveva succedere agli italiani delle zone di Trieste e dell’Istria, dove a migliaia  vennero uccisi con le stesse “motivazioni” sopra addotte: la lotta contro gli esponenti della comunità civile di etnia italiana e la eliminazione di possibili oppositori al costituendo stato comunista.

Difficile quantificare in modo preciso le vittime.

Va tenuto conto che le foibe sono prese come simbolo di una strage che, nella maggior parte dei casi in effetti si è svolta con modalità differenti: se si contassero solo i cadaveri trovati nelle foibe si arriverebbe ad un numero sicuramente lontano dalla verità.

Pare ragionevole calcolare in circa 10.000 i morti (di cui una parte decisamente minoritaria ritrovata nelle foibe). Segnalo che negli anni precedenti calcoli diversi (ma probabilmente inesatti) portavano il numero a 15.000.

Ai massacri seguì un’altra tragedia, quella dell’esodo degli italiani delle zone giuliane e dalmate.

Il timore che gli assestamenti diplomatici assegnassero alla Jugoslavia le loro terre (timore che poi si rivelò giustificato dai fatti) spinse centinaia di migliaia di italiani alla scelta di abbandonare le loro case e di spostarsi in Italia.

Circa 250/300.000 persone animarono questo esodo, che comportava un viaggio difficoltoso e la impossibilità di salvaguardare i beni lasciati.

A ciò si aggiunse un atteggiamento ostile di molta parte dell’opinione pubblica italiana, quella di convinzione comunista, che vedeva in questi esuli degli anticomunisti (quando non dei fascisti) che si rifiutavano di collaborare con il nuove regime socialista del Maresciallo Tito. Molti episodi di intolleranza si registrarono nelle stazioni ferroviarie e nei porti all’arrivo dei profughi, cui si rifiutavano i servizi predisposti, dalla somministrazione di cibi caldi all’aiuto nello spostamento dei bagagli.

Da parte del governo si organizzarono zone di accoglienza, con campi profughi situati in strutture di vario genere ( a Monza venne utilizzata la Villa Reale, scelta francamente comprensibile solo in un’epoca tragica come il nostro secondo dopoguerra. All’ultimo piano della Villa si possono ancora vedere sugli stipiti delle porte le scritte con i cognomi delle famiglie che occupavano la stanza loro assegnata), ma ci vollero anni per una piena integrazione.

A questo punto bisognerebbe dar conto delle mille interpretazioni storiografiche e dei mille dibattiti politico-culturali su questi avvenimenti: i motivi e le colpe, le giustificazioni e le condanne e così via.

Non abbiamo né la competenza, né lo spazio, né l’intenzione.

Questo scritto è solo un richiamo alla memoria: uomini e donne che ancora sono tra noi hanno vissuto sulla loro pelle una tragedia e una bruciante difficoltà a farsi comprendere nel loro dolore.

Uomini e donne che sono tra noi possono andare solo da turisti in luoghi in cui la loro famiglia ha avuto radici e le ha viste bruscamente strappate.

E un velo di colpevole oblio si è steso per anni su queste vicende.

Che alcune vicende storiche e alcune colpe politiche abbiamo potuto favorire quel che è stato, non toglie nulla alla tragicità del fatto in sé: molti innocenti hanno subito una violenza irreparabile.

Non a caso ho scelto di cominciare citando un grande presidente della Repubblica, che ha saputo elaborare la sua personale storia politica per identificarsi in tutta la storia italiana: uno sforzo e un cammino che dobbiamo a chi prima di noi ha tanto sofferto e ha poi saputo contribuire alla ricostruzione del nostro paese (non intendo far nomi, ma si sappia che anche a Monza esuli giuliani e dalmati hanno avuto presenze importanti nella nostra comunità).

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