di Alfredo Somoza
Il glifosato è l’erbicida che più ha rivoluzionato il corso dell’agricoltura moderna. Brevettato nel 1970 dal gigante statunitense delle sementi Monsanto, dal 1991 è libero da diritti, ma il primo produttore mondiale è sempre la Monsanto, con il suo marchio Roundup. Seguono una novantina di altre aziende, per una produzione annua globale che si aggira attorno alle 750.000 tonnellate.
La fortuna e l’importanza di questo erbicida sono legate all’applicazione della genetica di laboratorio al mondo dell’agricoltura. Soia, mais, colza, cotone OGM, infatti, furono “progettati” per resistere, tra tutti gli erbicidi, proprio al glifosato, che avrebbe dovuto eliminare tutte le erbe infestanti dai terreni agricoli.
Nel 1996, quando si cominciò a coltivare le specie OGM del tipo “Roundup ready”, negli Stati Uniti non era stata censita alcuna pianta infestante in grado di resistere all’effetto distruttivo di questo erbicida. A distanza di 20 anni, però, sono ben 14 le specie che hanno sviluppato resistenze al suo uso. Per questo motivo, dopo un calo iniziale nell’uso dei erbicidi registrato a metà anni ’90, quando si scese da 1,35 chili a ettaro a 1,10, oggi si usano 2 chili a ettaro per la coltivazione – ad esempio – della soia OGM: un dosaggio superiore a quello degli anni ’80.
Ed è questo il vero elemento critico, ignorato dagli scienziati pro-OGM, sull’impatto degli organismi geneticamente modificati. Non tanto la loro eventuale pericolosità per la salute umana, ancora da dimostrarsi, ma il modello agricolo che questo genere di agricoltura determina: fine della biodiversità, uso intensivo dei suoli e conseguente erosione, aumento dell’impiego di pesticidi ed erbicidi, monopolio della produzione di sementi in mano a tre soli soggetti multinazionali.
Le ultime ricerche scientifiche aggiungono ulteriori motivi d’inquietudine. Pochi mesi fa, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha adottato uno studio a cura del Centro Internazionale di Ricerca sul Cancro, classificando il glifosato tra i prodotti “probabilmente cancerogeni”: soltanto un passo prima della sua identificazione come elemento “cancerogeno” e della conseguente richiesta di messa al bando. La reazione della Monsanto è stata particolarmente violenta: il rapporto è stato definito “scienza spazzatura” e si è chiesto all’OMS di “rettificare” la classifica di pericolosità.
In realtà, del fatto che il glifosato fosse cancerogeno – anzi, “probabilmente cancerogeno” – se n’erano già accorti in Colombia: qui, nell’ambito del cosiddetto “Plan Colombia” teso a distruggere le piantagioni di coca, per anni i campi sospetti erano stati irrorati da aerei carichi di tonnellate di glifosato, con gravi conseguenze economiche e umane. Anche in Argentina, patria della sperimentazione transgenica, nei primi anni 2000 vennero avanzate denunce documentate circa le ricadute sulla salute umana dell’uso massiccio di glifosato. Nel 2011, l’Istituto Geologico degli Stati Uniti ha rilevato che tre quarti dei campioni di acqua piovana e dell’aria delle zone agricole contenevano glifosato.
Perché allora anche l’OMS va con i piedi di piombo? Forse perché, come ha scritto il quotidiano francese Le Monde, il glifosato è «il Leviatano dell’industria fitosanitaria», imprescindibile per la coltivazione dell’80% delle specie OGM oggi esistenti. Troppo importante per essere messo al bando, si potrebbe concludere. Forse anche per questo l’UE si ostina a non riconoscere il giudizio dell’OMS.
La disputa sul glifosato illustra perfettamente lo stato dell’arte sull’agricoltura e sul futuro dell’alimentazione umana. Le promesse di aumento produttivo e di sostenibilità si infrangono contro gli interessi dei sempre meno numerosi proprietari dei brevetti industriali e delle terre agricole. Le eventuali conseguenze del consumo di prodotti OGM sulla salute umana diventano secondarie rispetto agli impatti del modello agroindustriale odierno sulla Terra e sull’uomo: un modello che non prevede la rotazione, la lotta integrata, il riposo dei campi, la piccola e media proprietà.
Eppure il tema è considerato secondario, per addetti ai lavori, rispetto ai mirabolanti dibattiti tra scienziati e politici che popolano le colonne degli editoriali dei principali giornali.