di Francesca Radaelli
Da abbattuto a beato. Forse sta tutto qui il senso vero e lo spirito ideale della cosiddetta beat generation. Qui, in queste due parole, del cui significato la traduzione italiana – come tutte le traduzioni – fornisce solo un’indicazione, un’idea, o meglio una direzione verso cui guardare. Del resto, nell’inglese/americano che parlavano, scrivevano e recitavano cinquant’anni fa o poco più i membri di quella generazione la parola era una sola, multiforme e perfetta: beat. Beat come il battito, musicale e vitale, che dava forza e vita a quella generazione di artisti, intellettuali, visionari. “Fu da cattolico”, racconta Jack Kerouc, al quale si deve il nome del movimento (che sarà poi ‘istituzionalizzato’ dal giornalista John Clellon Holmes nell’articolo comparso sul New York Times nel 1952 con il titolo This is the beat generation!), “che un pomeriggio andai nella chiesa della mia infanzia e a un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio della chiesa (ero solo lì dentro, erano le cinque del pomeriggio; fuori i cani abbaiavano, i bambini strillavano, cadevano le foglie, le candele brillavano debolmente solo per me), ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola “Beat”, la visione che la parola Beat significava beato”.
La storia racconta che tutto comincia a New York, alla Columbia University, dall’incontro tra lo stesso Jack Kerouac, Allen Ginsberg e Lucien Carr. Tre giovani studenti a cui le lezioni dei professori non vanno giù, convinti che al di là della cultura accademica delle università ci debba essere dell’altro da scoprire, che il senso della vita debba stare al di fuori delle convenzioni di una società che assomiglia troppo a una prigione. Altrove. E altrove quei ragazzi questo senso provano a cercarlo, in un altrove fatto di luoghi decisamente non convenzionali.
Nella beat (itudine) che regalano, per un momento troppo breve, le droghe pesanti o l’alcol.
Nelle infinite strade d’America che percorrono insieme, nel corso di viaggi come quello celeberrimo On the road raccontato in uno dei romanzi simbolo del movimento, scritto da Kerouac nel 1951 (Sulla strada, nella traduzione italiana). Viaggi in cui non conta la meta, il traguardo, ma la partenza, il percorso, gli incontri. In cui l’importante non arrivare ma partire.
Nella spiritualità – diversi poeti beat si avvicinarono al buddismo, alla filosofia zen, ma anche il misticismo cattolico ebbe un ruolo non indifferente nel loro immaginario.
Nell’amore libero, che sarà poi uno dei leit motiv della cultura hippie. Nell’arte, nella poesia e anche nella musica.

A Kerouac, Ginsberg e Carr si affiancano ben presto altri personaggi che diverranno altrettanti simboli della stessa beat generation: David Kammerer, William Burroughs, Neal Cassady. Quindi Gary Snyder, Lawrence Ferlinghetti e Gregory Corso.
Ho visto le migliori menti della mia generazione
distrutte dalla pazzia, affamate, nude, isteriche
trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa…
a fumare nel buio
soprannaturale di soffitte ad acqua
fredda fluttuando nelle cime delle città, contemplando jazz…
Ho visto le migliori menti della mia generazione che mangiavano fuoco in
hotel ridipinti…
che vagavano su e giù a mezzanotte per depositi ferroviari chiedendosi dove andare, e andavano, senza lasciare cuori spezzati.”
Così inizia Howl (Urlo), il poema scritto da Allen Ginsberg che costituisce una delle pietre miliari letterarie della Beat Generation. E che di fatto ne traccia un ritratto forse un po’ allucinato ma estremamente fedele a ciò che furono o cercarono di essere i giovani visionari che fecero parte di questo movimento davvero rivoluzionario.
Giovani che cercavano pace, libertà, beatitudine al di fuori di quelle convenzioni che probabilmente in molti non avrebbero mai pensato di mettere in discussione se non avessero letto Sulla strada di Kerouac. Che lottavano contro la guerra in Vietnam ma anche contro le discriminazioni di neri, donne, omosessuali d’America, aprendo la strada alle contestazioni studentesche.
Giovani precursori dei ribelli del 68, che ebbero, non tutti ma molti, un destino tragico. David Kammerer venne ucciso con un coltello da Lucien Carr del quale era innamorato: l’episodio, in cui furono coinvolti anche Kerouac e Bourroughs, segnò per sempre l’immaginario del gruppo. Jack Kerouac sprofondò nell’alcolismo e morì a soli 47 anni. Neal Cassady, oggetto dell’amore, mai corrisposto, di Allen Ginsberg, venne trovato morto al termine di una festa di matrimonio, con innumerevoli sostanze all’interno del proprio corpo.
I loro temi ispirarono le canzoni da Nobel per la Letteratura di Bob Dylan, e continuano a ispirare quegli spiriti liberi che decidono di cercare la propria strada non nella conquista di una posizione sociale ma nel viaggio, nell’into the wild, nella fuga da ogni legame. Spiriti ingenui, ora come allora, e destinati a finire abbattuti? Forse. Ma almeno, anche se solo per un momento, capaci di essere beati.
In Italia i testi beat arrivarono grazie a Fernanda Pivano, che fu amica, traduttrice e in qualche caso quasi editrice di quegli individui strampalati venuti dal di là dell’Oceano. E che riuscì a portare qualcuno di loro anche alle nostre latitudini. Con conseguenze talvolta inaspettate, anche se forse prevedibili. Come quella volta che, a Spoleto, durante una pubblica lettura, Allen Ginsberg finì dietro le sbarre per i versi ‘osceni’ delle sue poesie. Era il 1967. Di lì a un anno, in Europa, sarebbe esploso il maggio francese…