Gianni Agnelli, l’avvocato che non sapeva amare

di Claudio Pollastri

Il 24 gennaio 2003 moriva a Torino, dov’era nato il 23 marzo 1921, Gianni Agnelli. Aveva quasi 83 anni. Se ne andava una figura unica nel panorama imprenditoriale, sportivo e culturale italiano. Era un’icona di stile e molti “vestivano alla Agnelli” imitandone il vezzo di indossare, per esempio, l’orologio sopra il polsino della camicia. Ma l’Avvocato, come veniva chiamato anche se non era mai entrato in un’aula di tribunale, occupava una posizione glamour anche nel jet-set internazionale con le frequentazioni mondane di personaggi come Kissinger e i Kennedy, soprattutto Jaqueline.

Molti hanno scritto e scriveranno su di lui, specialmente oggi. Senza annoiare troppo vorrei aggiungere un ricordo personale che mi aveva profondamente colpito anche se non riuscirò a ricreare quell’atmosfera a tratti surreale perché – come cantava Celentano – le emozioni non hanno voce.

Gianni Agnelli con Claudio Pollastri

Era un sabato pomeriggio della metà di dicembre del 2000. Una luce lattiginosa riverberata dai piccoli cristalli della neve dipingeva Torino in una luce più fredda del solito. In un teatro cittadino si celebrava la funzione laica del trigesimo della morte, rimasta sempre avvolta dal mistero, di Edoardo Agnelli avvenuta il 15 novembre dal viadotto Generale Franco Romano dell’autostrada Torino-Savona dalle parti di Fossano. Un volo di ottanta metri metteva la parola fine alla vita controversa del primogenito dell’Avvocato che aveva fallito i numerosi tentativi di prendere il comando dell’Impero di famiglia. Gli organizzatori di quell’incontro volevano ricordare la sensibilità frastagliata di Edoardo con la lettura delle sue poesie dove riversava il proprio disagio esistenziale con strofe che riuscivano a scorticare l’anima.

Per un giro intricato che non vi sto a spiegare avevo un posto in prima fila a poche poltrone di distanza dall’Avvocato. Che aveva promesso di presenziare senza però darne la certezza. “Forse non se la sentirà psicologicamente”, commentavano in modo preventivo gli organizzatori temendo una defezione che col passare dei minuti diventava quasi certa.

Ma ecco il colpo di scena com’era nello stile dell’Avvocato. Che due minuti prima dell’inizio era entrato da solo nel teatro ed era venuto diretto verso la poltrona che gli era stata riservata con andatura claudicante per i numerosi infortuni sciistici ma non sofferta per l’atmosfera della ricorrenza. Il volto scavato dalle rughe che tutti avevano imparato a conoscere dalle copertine dei magazine internazionali non sembrava tradire suggestioni particolari. L’espressione impenetrabile dietro una maschera di marmo era la stessa di quando l’avevo intervistato in due occasioni per la Fiat e la Juventus. Una sfinge. E di quella sfinge volevo scoprire le sfumature, le ombre, le lacrime che avrebbero avuto la forza di scendere.  Osservavo il viso dal profilo antico dell’Avvocato mentre nel teatro riecheggiavano i versi disperanti del figlio che si era da poco tuffato in un destino drammatico verso il quale si sentiva intimamente chiamato da tempo.

Le angosce, le speranze subito trasformate in delusioni, l’anelito estremo che Edoardo aveva affidato a quelle strofe struggenti denunciavano il bisogno urlato di aiuto, di mancanza di affetto, di astinenza patologica d’amore paterno che un pacchetto di azioni quotate in borsa non potevano sostituire perché la borsa dei sentimenti non ha prezzo o è talmente alto da pagarlo con la vita.

Nei venti minuti della lettura rivelatrice di una tragedia intimista rimasta inascoltata l’Avvocato era rimasto immobile, senza l’ombra di una partecipazione apparente, né il gesto spontaneo di asciugare una lacrima. Una rigidità esteriore che probabilmente mascherava una tempesta di rimpianti trasformati col tempo in rimorsi verso un figlio così diverso da come l’avrebbe voluto ma così determinato ad andarsene in agghiacciante solitudine rovinando sulle sponde sassose del fiume Stura di Demonte per non continuare una vita che non sentiva sua e che non era più disposto a barattare con l’ipocrisia delle apparenze.

Alla fine del viaggio pubblico nell’animo privato di Edoardo, l’Avvocato si era alzato e sul suo volto non leggevo la sofferenza di avere assistito al testamento morale e all’accusa personale di suo figlio verso un mondo soprattutto familiare che non si era sforzato di capirlo e accettarlo.

Adesso padre e figlio riposano l’uno di fronte all’altro nella monumentale cappella di famiglia del cimitero di Villar Perosa.

image_pdfVersione stampabile