di Enzo Biffi
Esistono biografie capaci di sopravvivere senza mai essere lette; vite arruffate abili ad intersecarsi nel quotidiano quasi di soppiatto, senza farsi sentire, come favole ascoltate da bambini e mai veramente dimenticate. Tra queste parabole urbane si scorge quella di Dino Buzzati: scrittore, poeta, librettista, giornalista, drammaturgo e pittore.
Nato in Veneto nel 1906, cresce tra Belluno e Milano, tra famiglia e biblioteca. Frequenta il Liceo Parini, studia violino e pianoforte, rivolge lo sguardo alle montagne; intraprende e abbandona la carriera giuridica, decide di voler scrivere un romanzo. Poco più che ventenne, entra come praticante al Corriere della Sera, dove rimarrà a lungo in veste di titolista; per questo, di fatto, i suoi articoli sono veramente pochi. La sua voce narrativa comincia a sentirsi dal 1935, nell’epoca dei primi racconti pubblicati su inserti e riviste.
Personaggio ormai conosciuto, Buzzati prende parte alla vita politica internazionale in qualità di inviato di guerra (Addis Abeba, Messina) e sportivo (Giro d’Italia, 1949). I primi esperimenti letterari – si direbbe ben riusciti – sono Bàrnabo nelle Montagne e Il Segreto del Bosco Vecchio, entrambi portatori di un’etica naturale, diretta, a tratti fiabesca. Vede poi la luce Il Deserto dei Tartari, masterpiece che consegna lo scrittore alla fama internazionale. Seguono altri importanti romanzi, quali Il Ritratto, Un Amore e I Miracoli di Val Morel.
«Hobby per me è scrivere. Ma dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie.»
Dietro al Giornalista ordinario, Dino Buzzati racchiude un orizzonte larghissimo e spaventoso, abbagliante quanto la cima delle sue montagne al mattino. Leggendo i Sessanta Racconti si ha l’impressione di aprire un’oasi nella siccità estiva, di trovare un immenso panorama sbirciando da uno scorcio; come se i confini delle battute tipografiche si allargassero all’improvviso, accogliendo parole nascoste anche tra spazi e punti-a-capo.
Tra realtà e magie disarmanti, l’autore presta dimensioni da custodire al caldo, avventure per affamati e viziosi ritagli di tempo. Una straordinaria virtù del raccontare, di cui oggi c’è bisogno più che mai. Mentre ci troviamo precipitanti come La Ragazza che precipita, in una corsa alla vita sul filo della letteratura, Dino Buzzati irrompe ancora nel contemporaneo quasi come l’Uomo di Porto Said:
«Furono pochi istanti. Solo dopo che ne ebbi tratto via gli sguardi mi accorsi che l’uomo, e specialmente il suo passo inconsueto, mi erano di colpo entrati nell’animo senza che sapessi spiegarmene la ragione.» (Da Ombra del Sud, Sessanta Racconti)
Silvia Biffi
Arrivai con la luce prima del mattino insieme a Daniele e Antonello. Sul Furgone, un carico di stranezze tipiche di chi si dice artista e insieme una manciata di suggestioni e idee a cui dare forma. Le idee erano le nostre, le suggestioni indotte dai racconti e dal lavoro di chi in quella casa aveva abitato. Il filo che univa noi e Dino Buzzati era la pronipote. Aveva organizzato un ricordo dello zio famoso, unendo in un solo fine settimana un gruppo di artisti dediti a varie discipline. Arti visive, danza, poesia e teatro, una piccola ma rappresentativa comunità di creativi tutti riuniti attorno all’opera e alla poetica dello zio. Ne risultarono due giorni di evasione; passava una leggera brezza che diffondeva un’aria un po’ colta e un po’ surreale. Ai piedi delle dolomiti Bellunesi, appoggiato sulla riva del Piave, il casale pieno di foto, ricordi e parole ci accolse tutti e tutti ne accolsero la magia.
Daniele decise di isolarsi insieme al suo lavoro nella piccola cappella della tenuta, Antonello riversò le sue casse lungo il prato di casa mentre io, non appena entratoci, non riuscii più ad uscire dal granaio dove, isolato nella quiete che lì già abitava, diedi forma al mio omaggio.
Quello che accadde lungo quelle ore, fra poesie, danze e installazioni, complice anche il prosecco locale, restò tatuato in me insieme ad un pensiero: “Nonno Dino sarebbe stato a suo agio.”
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