di Francesca Radaelli
Misericordia e gioia. Queste le parole che meglio esprimono la visione della Chiesa di papa Francesco, secondo padre Giuseppe Riggio. Direttore della rivista “Aggiornamenti sociali”, è stato lui, lo scorso 27 maggio, l’ospite dell’incontro conclusivo del ciclo di serate dedicate al pensiero di papa Francesco, dal titolo “Il coraggio di un profeta”, organizzate da Caritas Monza l’ultimo lunedì del mese negli spazi della biblioteca del Carrobiolo. Una conclusione incentrata sul futuro della Chiesa. “Qui si sviluppa tutta la forza profetica del papa”, ha sottolineato il giornalista Fabrizio Annaro, conduttore del ciclo d’incontri insieme al pedagogista Mino Spreafico. “Le idee di Francesco sono rivoluzionarie, spingono i credenti a pensare. E il papa esercita una grande attrazione anche sui non credenti, è in grado di parlare alla loro coscienza. Anche nella nostra coscienza di cristiani suscita pensieri discordanti, spesso anche critiche, che possono però aprire un confronto”.
La Chiesa come un ospedale da campo
Il punto di partenza della riflessione sono le parole di un’intervista del 2013 al gesuita Antonio Spadaro, a cui il papa espresse la sua visione della Chiesa come “un ospedale da campo dopo la battaglia”, sottolineando la necessità di curare le ferite, cominciando dal basso, e il fatto che i ministri della Chiesa debbano essere soprattutto misericordiosi.
“Queste riflessioni sono oggi ancora attuali?”, si chiede Fabrizio Annaro. “Abbiamo intrapreso un cammino in questa direzione, oppure siamo ancora fermi?”
Sull’espressione “curare le ferite” si sofferma Mino Spreafico, che sottolinea: “C’è una divisione nella Chiesa oggi, da alcune parti c’è una tendenza a guardare al passato, mentre il papa ci invita a guardare all’avvenire. Bisogna però cercare il dialogo, non polarizzarsi. Papa Francesco è il primo che osa, anche uscendo dai canoni liturgici, come ha mostrato recentemente la Messa dedicata ai bambini che si è conclusa con l’intervento di Roberto Benigni”.
Seguendo una prassi ormai consolidata durante il ciclo di incontri, la parola passa quindi al pubblico. Negli interventi emergono riflessioni di vario genere: il dubbio che le “visioni” del papa siano destinate a rimanere un sogno privo di concretezza, la necessità di uno spirito di “comunità” all’interno dell’ “organizzazione” Chiesa, la relazione tra Chiesa e “mondo”, il fascino per il magnetismo esercitato dal papa fuori dalla Chiesa, la solitudine profetica della figura di Francesco, paragonabile a quella di Gesù Cristo.
Conversione e gioia
A queste sollecitazioni è chiamato a rispondere padre Riggio, che inizia soffermandosi sulla capacità di Francesco di parlare anche a chi sta fuori dalla Chiesa: “Il papa è capace di parlare e suscitare l’ascolto e credo che questo sia riconducibile alla sua storia personale. È un papa non europeo ma neanche estraneo all’Europa. È stato europeo non solo per le sue lontane origini piemontesi, ma anche per la formazione ricevuta presso la Compagnia del Gesù, però ha il merito di avere lo sguardo di distacco di chi proviene da un altro continente. Rispetto all’Unione Europea individua le opportunità che essa può dare, ma ne mette in luce anche i cortocircuiti interni. Questo manifesta la spiritualità ignaziana in cui papa Francesco è cresciuto, che si basa sulla capacità di cogliere il bene in tutte le cose, soffermarsi non su ciò che non funziona ma su ciò che è positivo, in modo da leggere la realtà e poi operare le “conversioni” necessarie. Il papa usa spesso il termine “conversione”, ma questo concetto nasce da questo sguardo sull’umanità e da questo riconoscimento”.
Rispetto alla missione della Chiesa, padre Riggio sottolinea: “Papa Francesco preferisce una Chiesa che si prenda dei rischi piuttosto che una Chiesa che resti a letto malata. La Chiesa non è un’entità statuale o una ONG, ma ha una missione: annunciare il Vangelo nel mondo di oggi. Il cammino sinodale ci invita a vivere la missione nel mondo odierno, a farlo partecipando tutti, come comunità. Questa missione consegnata alla Chiesa papa Francesco la declina in una parola, potente, che facciamo però fatica a vivere: “gioia”. Il papa parla continuamente di gioia e non a caso si intitola ”Evangelii gaudium” il primo documento che esprime il programma di papa Francesco: una vera e propria esortazione a condividere la gioia del Vangelo. Il papa usa espressioni anche molto colorite: parla di una fede che non può essere quella dei musei, non può prendere polvere e restare confinata in spazi chiusi. Quella di cui parla Francesco non è la gioia di chi dice che va tutto bene, ma è una gioia che coincide con il sapere di non essere soli anche nelle fatiche e nei conflitti, di sentire una speranza che va al di là della ragionevolezza umana”.
Slancio visionario e concretezza
È uno slancio lontano dalla nostra vita, come si chiedeva qualcuno nel pubblico? “No”, risponde padre Riggio, “però ci obbliga ad alzare lo sguardo, ad abbracciare una prospettiva più ampia. Senza questo slancio possiamo rimanere imbavagliati in questioni tecniche, possiamo restare senza fiato. Invece respiriamo quando guardiamo a qualcosa che ci dà speranza e ci permette allo stesso tempo di restare nella concretezza. È una ginnastica continua: alzare lo sguardo pe poter respirare a pieni polmoni e ritrovare lo slancio, questo poi permette di abbassare lo sguardo e lavorare sulle situazioni concrete. È un esercizio che viene bene quando non lo si fa da soli. Quando si fa fatica ad alzare lo sguardo è bene essere con altri che alzano lo sguardo per te. Il papa invita ad alzare lo sguardo non per fuggire dalla realtà, ma per poterci stare dentro con la forza capace di testimoniare una rottura”.
In questa rottura stanno le critiche verso alcuni aspetti del mondo contemporaneo: “Tutto ciò che papa Francesco ci invita a vivere è un segno di rottura, contro un paradigma che lui definisce “tecnocratico”, cioè un modo di vedere la nostra vita centrato sul benessere individuale, con l’idea del progresso come un nuovo idolo e del consumismo che consuma anche noi. Nell’enciclica “Laudato si” viene sottolineata la capacità dell’uomo di resistere a una deriva che sia inautentica che tradisca la natura dell’essere umano”. In queste parole c’è lo slancio ideale. Ad esso però si affianca la concretezza: “Al tempo stesso nell’enciclica si fa menzione dell’importanza di spegnere le luci, non cucinare troppo, consumare il cibo che si è preparato senza buttarlo, diminuire il riscaldamento. L’esercizio è di traduzione concreta dello sguardo alto e profetico della visione”.
Tensioni da “abitare”
Un’altra parola chiave per capire il pensiero di Francesco, dopo “conversione” e “gioia”, è “tensione”. “Noi viviamo le tensioni, ne siamo in mezzo. Nella buona teologia cattolica non c’è un aut aut, ma si tratta di saper abitare le tensioni, starci dentro. Bisogna però riconoscere, tra queste tensioni, quale sia il polo prioritario, fare un esercizio di discernimento: non tutte le realtà devono essere trattate allo stesso modo, bisogna riconoscere quale debba essere oggetto di cura prioritaria, riuscire a capire di volta in volta chi è il più povero, il più vulnerabile, il più fragile, colui o colei che rischia di essere lasciato fuori”.
La “ Gaudium et spes” del Concilio Vaticano II proponeva di essere Chiesa “nel” mondo. “Oggi la tensione è tra il voler essere una Chiesa che è sicura di sé stessa e non si lascia mettere in discussione dal mondo, oppure una Chiesa che cammina nel mondo, che non accetta tutto quello che viene dal mondo acriticamente, ma nemmeno lo rifiuta aprioristicamente. Queste sollecitazioni ci rivolgono domande su come viviamo il dialogo e l’ascolto. Il confronto nasce dal riconoscere e rispettare l’altro, ma anche dall’essere consapevoli di chi siamo noi. Se non mi conosco, ogni parola dell’altro viene vissuta come un attacco contro di me, mi pone a mettermi sulla difensiva; se invece sono consapevole di me stesso sono anche più portato a dialogare. Anche a livello di Chiesa, se siamo impauriti e non ci fidiamo di noi stessi, non possiamo dialogare, perché non avremmo la forza per stare in quel dialogo. Se non sentiamo il Vangelo nostro, non possiamo neanche portarlo tra gli altri. Se ci sentiamo minacciati da dimensioni culturali e presenza di comunità religiose diverse è forse perché siamo noi che non abbiamo radici, che temiamo di affermare ciò in cui crediamo”.
Solitudine del papa e idea di comunità
Alla sollecitazione sulla solitudine del papa e sull’importanza della comunità, padre Riggio risponde così: “Il papa è a sé come ruolo, responsabilità e potere, ma il papa ci dice anche che una leadership che dà frutto è capace di valorizzare le persone che stanno intorno e condividere un progetto. Altrimenti il progetto finisce con il singolo. Questo significa fare comunità. Il vero leader crea la comunità, la favorisce. Occorre saper curare le ferite e avere una parola franca. Abbiamo bisogno di comunità autentiche: ci deve essere un reciproco riconoscimento, un prendersi cura dell’altro, una solidarietà. Bisogna sentire che si può, ognuno con il suo passo, camminare nella stessa direzione, disposti a fermarsi per aiutare chi è in difficoltà. Il Vangelo non ci dice che stiamo bene da soli, ci dice che stiamo bene con gli altri. Il primo atto che Gesù fa è cercare compagni di cammino, recuperando coloro che si sono dispersi. Questa è la direzione: radunare chi è disperso, riconoscere i diversi doni che può portare chi fa parte della comunità. Il sinodo è un luogo in cui costruire un cammino a partire da questi doni riconosciuti e condivisi”.
“Il messaggio della gioia ha una natura anche pedagogica”, sottolinea a questo punto Mino Spreafico. “Se non usa il linguaggio che permetta di perseguire la gioia, la Chiesa non può raggiungere le persone. Il messaggio cristiano che parla ai laici ha un valore importante per questo: ci dice che bisogna imparare a usare un linguaggio più accessibile”.
A questo punto ai partecipanti viene proposto di confrontarsi tra vicini sui temi emersi, per poi condividere le riflessioni.
In particolare, nell’ultima parte dell’incontro viene condiviso il ricordo di persone che hanno incarnato la gioia del Vangelo. A partire da Suor Maria Laura Mainetti, uccisa da tre ragazze a Chiavenna nel 2000, ricordata da una sua consorella, suor Lucia, come “Suor Sorriso”: “Era gioiosa e comunicava questa gioia, prendeva la gioia dal Signore durante la preghiera e la trasformava in umanità. Il suo programma di vita aveva tre punti: essere felicissima sempre, avere la certezza della presenza di Cristo risorto, avere la certezza che questa presenza è anche negli altri”.
Padre Giuseppe Riggio ricorda sant’Alberto Hurtado, gesuita cileno: una vita spesa accanto ai giovani, fondatore di una rivista e di un’associazione, Hugar de Cristo, ripeteva sempre “Contento senor contento”.
Esercitare la misericordia
L’ultima riflessione di padre Riggio è sulla misericordia: “Il motto del papa è “miserando atque eligendo”, ossia “esercitando la misericordia”. In questa insistenza del papa sulla misericordia – che si vede anche nell’immagine dell’ospedale da campo e nell’aver voluto un anno giubilare dedicato alla misericordia – c’è un’esperienza di fede molto forte da lui vissuta, nel suo cammino come gesuita. Bergoglio è stato infatti provinciale dei gesuiti in Argentina e ha partecipato a una congregazione mondiale dei gesuiti in cui venne scritto un importante testo sull’identità dei gesuiti. In questo testo si dice che un gesuita è un peccatore che si sa perdonato, amato e chiamato“.
E infine un accenno all’importanza e alla difficoltà di vivere la comunità, partendo dall’esperienza personale di padre Riggio, che abita insieme ad altri gesuiti all’interno della comunità di Villapizzone: “La comunità è importante e per questo difficile da vivere. Necessita di cure continue. In ogni comunità ci sono delle diversità che non sempre si capiscono e bisogna riconoscere che dentro una comunità ci sono tempi diversi ed essenzialmente lunghi. Servono i silenzi, non il parlare “dietro le spalle”, serve che ci sia nella diversità un punto di convergenza, ciò che ci tiene insieme. In una comunità cristiana questo punto in comune è il riconoscersi tutti figli e capire dove vogliamo andare come figli. In questo modo ci si può aiutare, a seconda delle esigenze di ciascuno”.
Don Augusto Panzeri di Caritas Monza, prendendo la parola a conclusione del ciclo di incontri, termina con un pensiero sul papa, sulla sua visione gioiosa, sul suo saper vedere il positivo: “Questo papa può vedere il positivo ed esercitare la misericordia perché vede il peccato o perché vede a sofferenza. Credo che lui veda la sofferenza. Pensando alla mia esperienza in carcere”, continua don Augusto, “posso dire che anche lì il cambiamento nasce quando la persona coglie qualcosa di positivo, una traccia di bene. Le persone non cambiano ma si commuovono quando scoprono che tu hai dato del tempo, dell’attenzione , qualcosa di bene”.