di Francesca Radaelli
È stata una Settimana della Carità dedicata ai più giovani quella organizzata quest’anno dalla Caritas Decanale di Monza.
“Quando l’umano incontra la fragilità dei giovanissimi” era il titolo del ciclo di quattro incontri che si sono svolti online nei giorni di lunedì 19, mercoledì 21, giovedì 22, venerdì 23 febbraio alle 20:45, “dopo il Tg”, come ormai da tradizione. Gli eventi, trasmessi in diretta sul canale YouTube di Caritas Monza e condotti dal giornalista Fabrizio Annaro e da don Augusto Panzeri, hanno esplorato sotto diverse angolazioni la fragilità degli adolescenti, con l’aiuto di alcuni professionisti che lavorano a stretto contatto con il mondo giovanile. E che hanno provato a dare alcune chiavi di lettura per provare a interpretare il mondo spesso enigmatico degli adolescenti. E cercare di prendersi cura di queste “anime fragili”.
Sessualità: quando il dialogo diventa imbarazzante
Di affettività e sessualità hanno discusso due pedagogisti e docenti universitari, Emanuele Fusi e Gerolamo Spreafico. Un dialogo, quello tra giovani e adulti su questi temi, che può “diventare imbarazzante”: “Sono temi di tutta la vita, non solo dei giovani”, sottolinea Emanuele Fusi. “Il modo in cui li vivono gli adolescenti è legato alla loro individuazione, ossia al modo in cui in questa età delicatissima costruiscono la loro identità, diventano loro stessi. La sperimentazione di sé dei ragazzi oggi è mediata, ha una forma che tende alla virtualità e all’idea che tutto è possibile, che posso sempre tornare indietro. Questo significa vivere una particolare forma di individuazione”.
Un’altra parola chiave degli adolescenti di oggi è “presentificazione”, ossia l’idea di avere tutto subito, sempre ora. “Se non avverto l’esigenza di avere un passato e proiettarmi verso il futuro, però, viene meno il tema del desiderio. Questo vuol dire soprattutto che io devo accelerare per stare sempre lì, nel presente, che non mi concedo mai una dilatazione, un’attesa, un tempo”.
Terzo concetto chiave, secondo Emanuele Fusi, per leggere l’affettività dei giovani è quello di “sperimentazione infinita”: “In una realtà sempre presentificata, virtualizzata, reversibile, io posso costantemente replicare me stesso. I miei studenti mi confidano di avere almeno tre o quattro profili sui social. C’è la possibilità aperta di essere qualcosa e poi qualcos’altro. Non c’è spazio per rimanere con sè stessi, non solo nella solitudine, ma neanche con l’altro”. La sperimentazione è segnata dall’opacità: “Si gioca sempre sul mostrare qualcosa di sé e non qualcos’altro. Questo implica un gioco costante attraverso la propria immagine. Ma porta anche a vivere l’ansia di doversi mostrare, di dover apparire”.
Secondo Emanuele Fusi non è un’epoca facile per essere adolescenti. “Trovarsi di fronte al compito di individuarsi, di cercare se stessi oggi vuol dire scontrarsi con un contesto che tende a schiacciare. Dall’altro lato tutta la società è adolescente. Quelli appena citati sono mantra sociali: tutto è possibile, devi essere nel presente. Siamo di fronte a un’adolescentizzazione della vita”.
Gli fa eco Gerolamo Spreafico: “Gli adolescenti sono lo specchio di una società adulta a smarrita. Intorno a questo tema sociologi e psicanalisti distinguono le tre dimensioni di eros, sessualità, amore. Il problema è che la nostra società è individualistica, ognuno finisce per consumare da solo queste tre dimensioni, ma né sesso né amore né eros esistono fuori della relazione”. Spreafico sottolinea sulla mancanza di un’alfabetizzazione su queste tre dimensioni presso i più giovani. E si sofferma sul ruolo della pornografia: “È un’industria che ha un fatturato più alto di Netflix, calcolato in 100 miliardi di dollari. In passato il porno imitava la sessualità, ora la sessualità imita la pornografia, attraverso i device. E l’accesso a questa confusione di termini avviene attraverso questo sistema, che è un’industria, e come tale vende prodotti, massimizza profitti, mira ad avere sempre più consumatori”.
Un disagio analogo è vissuto anche dagli adulti, e allora una possibile direzione verso cui andare potrebbe essere non tanto quella di una lettura morale della sessualità ma quella di un’esperienza vitale: “Se noi stessi ci mettiamo in gioco, facendo più esperienza di vita, diventiamo una risorsa educativa per i ragazzi”.
Se gli adulti faticano ad avere un’ elaborazione di pensiero di fronte alla complessità del mondo dei giovani, per i due pedagogisti non si può nemmeno risolvere tutto introducendo un’ora di educazione sessuale nelle scuole. “Occorre esserci in luoghi come la scuola, ma anche sulle piattaforme digitali, interrogarci su quali esperienze stiamo offrendo, immaginare in questi luoghi dei modi per accompagnare il percorso di individuazione degli adolescenti”.
Da parte degli adulti è necessario costruire un linguaggio “preciso, marcato, non confuso”, riorganizzare “il nostro esempio e le nostre scelte”. Sono sempre maggiori i casi di neutralità e disforia di genere tra i giovanissimi. In alcuni casi, sottolineano i due pedagogisti, un fattore importante è proprio l’immagine dei ruoli di uomo e donna proposti dalla società adulti, stereotipati e condizionati dalla pornografia: l’uomo virile e “prestazionale”, la donna sempre pronta a sottomettersi. Un’immagine in cui spesso i ragazzi non si riconoscono: “I genitori devono ritrovarsi, tessere relazioni tra adulti, prendere davanti ai figli una posizione che nasca da questa condivisione”.
Il disagio che esplode
Di comunità e alleanza tra adulti ha parlato anche Simona Ravizza, direttrice dell’impresa sociale Il Carro, che nell’appuntamento di mercoledì 21 febbraio si è soffermata sul disagio “che esplode” con malessere, rabbia, violenza, a partire dalla propria esperienza nella gestione della scuola popolare del Carrobiolo di Monza. Se un tempo quello sul disagio giovanile poteva sembrare un lavoro sussidiario e residuale rispetto al sistema educativo nel suo complesso, ora è scoppiata una vera e propria “bomba”, con la pandemia Covid 19 a fare da detonatore. “Come educatori abbiamo una professionalità che ci sostiene, ma oggi spesso le famiglie e le scuole si sentono travolte da un disagio generalizzato e spesso difficile da interpretare”. La corda che si è rotta, secondo Simona Ravizza è, ancora una volta, la dimensione collettiva dell’educare: “Dobbiamo metterci in discussione come adulti. L’educazione non è un affare privato dei singoli genitori o dei singoli insegnanti, bisogna uscire dall’idea secondo cui non è colpa mia perché sono un bravo educatore, perché sono un bravo insegnante”.
Non ha senso chiedersi quali sono i nuovi bisogni dei ragazzi: “I bisogni sono sempre gli stessi: vogliono essere visti, amati, vogliono avere una prospettiva di futuro”, sottolinea Simona Ravizza. “La domanda giusta è piuttosto ‘che cosa desiderano?’ E la risposta non deve essere una concessione dall’alto, ma un mettersi a fianco a loro, accettare di mettersi in discussione ed essere disposti anche a dire dei no”.
Il conflitto a volte è difficile, soprattutto quando il malessere dei ragazzi lo porta oltre il piano educativo, su un piano psicologico. “Eppure io posso dire che tutti i ragazzi con cui ci siamo messi in gioco, anche quelli più arrabbiati, poi sono tornati a trovarci”, assicura Simona Ravizza. “Non è semplice, a volte abbiamo avuto a che fare con comportamenti rabbiosi e aggressivi. In questi casi aiuta molto la dimensione collettiva del lavoro educativo, poiché di fronte alla gestione delle esplosioni di violenza e rabbia è necessario supportarsi a vicenda tra operatori. In ogni caso non bisogna avere paura del conflitto, assumersi le responsabilità del proprio ruolo, ma anche rivolgere a questi ragazzi uno sguardo che lasci loro lo spazio di determinarsi e che lasci aperto lo spazio per tornare”.
Giovani “appartati” in casa: la realtà fa paura?
Di disagio psicologico che porta a fuggire dal mondo chiudersi dentro le mura di casa si è occupato lo psicologo e psicoterapeuta Marco Besana nell’intervento di giovedì 22 febbraio. Un osservatorio privilegiato, il suo, da cui ha potuto vedere negli ultimi anni una vera e propria esplosione di ansia, depressione, ritiro sociale tra i giovanissimi. “Spesso il mondo ‘di fuori’ ai ragazzi fa paura”, afferma. “Quella in cui viviamo è una realtà che spinge ad aver paura dell’insuccesso, poiché abbiamo la tendenza a evitare che i ragazzi possano sbagliare. Di conseguenza c’è una bassa tolleranza della frustrazione, all’interno di una cultura del “tutto e subito”: l’idea è che se non posso ottenere un risultato senza fatica allora non mi impegno. Invece crescere è una fatica e richiede i suoi tempi. Anche negli adulti, però, c’è la stessa ricerca di velocità”.
Una paura dell’insuccesso che spesso si lega ai risultati scolastici: “Di fronte a un insuccesso scolastico ci si sente sminuiti nella propria persona, anche se il voto riguarda la prestazione. Bisognerebbe lavorare a livello educativo sulla cultura dell’insuccesso, sul prendere coscienza dei propri limiti, sull’accettare che non tutto vada come noi l’avevamo pensato. A tutto ciò si aggiunge la paura di assumersi le proprie responsabilità, la tendenza a attribuire la colpa di ciò che accade a un evento esterno, per esempio al professore o a alla scuola”.
Perché i giovanissimi spesso si chiudono in sé stessi e in casa? Marco Besana a questo proposito parla di “ansia da vuoto identitario”: “L’ansia è la risposta a qualcosa che ci spaventa. Tempo fa era soprattutto ansia da prestazione, oggi invece subentra nel momento in cui non ho ben chiaro chi sono, cosa posso dare, qual è la mia strada. Quando inizio a sperimentare l’insuccesso, la difficoltà con il mio gruppo di amici. È questo che spaventa, che porta a rifugiarsi in un posto sicuro: la camera, in cui tutto è sotto controllo. In questo modo, però, ci si mette in disparte dalla vita”.
Sembra esserci tanta passività nei giovani, eppure spesso sono sorprendenti: “Abbiamo l’idea che siano impermeabili. Invece sono persone estremamente informate, molto più di noi una volta. Hanno un’idea, una posizione, anche se spesso fanno fatica ad esprimerla. Forse siamo noi poco disponibili ad ascoltarli, a tollerare un punto di vista completamente differente dal nostro. Hanno una grande sensibilità rispetto a minoranze, diversità, temi sociali. Insomma, se li ascoltiamo, i giovani possono portare un’altra narrazione, diversa da quella dei media mainstream su di loro”.
Ecco che allora appartarsi in casa può essere anche una reazione alla velocità che domina il nostro mondo, quello degli adulti prima di tutto: “Noi adulti siamo i primi che si riempiono l’agenda di impegni, mentre in realtà fermarsi spesso è un investimento. Anche i bambini fin da piccoli hanno tantissimi impegni, viene a mancare il tempo della noia e della creatività”.
Le dipendenze: una limitazione della libertà
Nell’ultimo incontro, quello di venerdì 23 febbraio, Attilio Cocchiarini, responsabile del servizio dipendenze dell’area sud ASST Brianza e psicologo del SERT, ha trattato uno dei temi che più spaventano genitori ed educatori, quello della dipendenza da sostanze. L’incontro è iniziato fornendo un quadro interessante del fenomeno dell’uso delle sostanze nel mondo giovanile, fornito dai dati europei di Espad su un campione rappresentativo delle scuole superiori su tutto il territorio nazionale.
Dati che dicono che la media del consumo di alcool da parte degli adolescenti italiani è superiore a quella dei coetanei europei, mentre i dati sul consumo di tabacco sono in decrescita, grazie alle politiche di dissuasione del fumo e all’uso delle sigarette elettroniche. Tra le sostanze illegali, la più diffusa è la cannabis, di cui il 34% degli intervistati ha dichiarato di fare uso. Un tipo di consumo “nascosto” è quello di farmaci e psicofarmaci, consumati senza prescrizione soprattutto da parte delle ragazze. Attilio Cocchiarini evidenzia in particolare che tra i ragazzi l’uso delle sostanze è condiviso e sociale mentre per le ragazze è un consumo solitario, individuale, all’interno delle mura di casa. Un comportamento preoccupante è quello legato al consumo di nuove sostanze psicoattive: droghe sintetiche che simulano effetti di cannabis, eroina, cocaina. Preoccupante è soprattutto il fatto che quasi mai sono assunte da sole, ma spesso in associazione con alcol, cannabis, sostanze stimolanti.
Si segnalano poi comportamenti che possono generare dipendenza senza essere derivati da sostanze, come il gioco d’azzardo (il 45% dei ragazzi ha giocato almeno una volta nell’anno, il 7% ha un profilo di gioco problematico) e l’uso di videogame e social media (il 53% utilizza social media pe oltre due ore al giorno).
Attilio Cocchiarini spiega poi cosa si intende per “dipendenza patologica”: “Una condizione psichica e anche fisica che deriva dall’interazione tra un organismo e una sostanza e determina come risposta un bisogno compulsivo di assumere la sostanza periodicamente per evitare il malessere”. È proprio questo bisogno compulsivo che va a limitare la libertà, proprio quella libertà tanto ricercata dagli adolescenti. “Da un lato sperimentare è uno dei mandati dell’adolescenza, dall’altra parte questo può portare allo sviluppo di una vera e propria dipendenza che impatta sulla vita quotidiana”.
Non sempre si sviluppa una dipendenza ma sicuramente sempre le sostanze psicoattive compromettono lo sviluppo del cervello dell’adolescente: “Inibiscono lo sviluppo emotivo, l’apprendimento, la stabilità dell’umore. Inoltre, l’uso delle sostanze porta incremento dei rischi di essere coinvolti in situazioni fisicamente pericolose: incidenti stradai, malori in discoteca, malattie sessuali”.
Compito dell’adolescenza costruzione di un’identità adulta che sostituisca identità infantile dipendente dalle figure genitoriali: “Occorre costruire una rappresentazione sociale di sé stessi, nascere socialmente. La tossicodipendenza impedisce questo passaggio: il tossicodipendente non può mai dire ‘io’, è sempre lui legato a una determinata sostanza”.
Spesso l’uso delle sostanze è legato a una qualche forma di paura: “Può essere una cattiva forma di autoterapia. Sento spesso dire che le droghe bloccano l’accesso a certi pensieri, impediscono di pensare certe cose. Le sostanze hanno un ruolo anestetico, ma contemporaneamente impediscono di mettere a fuoco problemi e domande, prima fra tutti, per l’adolescenza, quella sul futuro. Ciò che aumenta il rischio di sviluppare dipendenze è poi il basso livello di autostima, l’ansia di non riuscire a svolgere adeguatamente un compito. La sostanza mi permette una forma di ritiro, oppure al contrario in alcuni casi la sostanza mi fa sentire potente. Ma senza la sostanza sono privo della mia identità e ho paura. Insomma, l’uso di sostanze non ha valenze trasgressive, ma è un adattamento a un mondo che non vogliamo cambiare”.
Come aiutare i genitori e le famiglie alle prese con questo problema? “E’ fondamentale non lasciar solo l’adolescente e la sua famiglia” risponde Attilio Cocchiarini. “Per individuare le situazioni a rischio ci sono dei campanelli di allarme a cui stare attenti: l’indicatore più significativo è il non riuscire a fare certe cose senza la sostanza. Questa è proprio quella limitazione della libertà a cui conduce la dipendenza da sostanze”.
Una libertà che invece dovrebbe essere, e sicuramente è, il desiderio più profondo di chi attraversa il difficile passaggio tra infanzia ed età adulta. Un passaggio a volte stretto e pieno di ostacoli, fatto di malessere, disagio, fatica. Un passaggio da percorrere con gli adulti a fianco, alla giusta distanza. Un passaggio attraverso cui conquistarsi un orizzonte di futuro. E capire che cosa si vuole diventare.