di Valeria Savio
Anziani, tagliati fuori dal processo produttivo dopo aver raggiunto l’età del pensionamento, troppo spesso soli, lontani dai figli, costretti a vivere in un ambiente cittadino in cui la velocità dei ritmi non coincide più con la loro capacità di adeguamento.
Vanno in cerca di nuovi equilibri, combattono contro gli spettri della depressione e della malattia, inseguendo qualcosa che possa dare un senso alle giornate, che li distragga, che li faccia sentire ancora vivi, che regali loro delle emozioni.
È proprio in questo bacino di utenza che il gioco d’azzardo trova, attualmente, molte delle sue vittime preferenziali.
Lo spiegano Mauro Croce, psicologo, psicoterapeuta e criminologo, professore di Psicologia delle Dipendenze presso l’Università della Val d’Aosta, e Fabrizio Arrigoni, psicologo e pedagogista, insegnante di Pedagogia e Antropologia e dei laboratori di geriatria della Facoltà di Medicina di Brescia, in questo saggio sul rapporto fra i nostri anziani e il gioco d’azzardo.
Il volume, introdotto dalla prefazione di Leopoldo Grosso, psicologo, psicoterapeuta e Presidente onorario del gruppo Abele di Torino, vede la partecipazione di Maurizio Avanzi, medico responsabile della cura del disturbo da gioco d’azzardo patologico per l’AUSL di Piacenza, di Marina D’Agati, ricercatore in Sociologia presso l’Università di Torino, e di Marco Fumagalli, educatore, consulente geriatrico per le demenze e e Docente di Metodologia dei servizi.

Arrigoni e Croce affrontano l’argomento ripercorrendo il ruolo del gioco nella nostra società, dall’epoca degli antichi greci e romani, che giocavano a dadi, talvolta anche barando, fino a tempi più recenti, quelli in cui il rituale della schedina del totocalcio rappresentava un momento collettivo che favoriva l’aggregazione e il divertimento senza trasformarsi in una spesa eccessiva.
Ci spiegano poi che, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, si è aperta una fase che ha generato nuove modalità di gioco, con la comparsa dei videopoker nei bar: “un piccolo rigagnolo che diventerà uno tsunami inarrestabile”. Il gioco esce, dunque, dagli spazi limitati e distanti dei casinò, frequentati dai ceti più ricchi, e raggiunge i nostri quartieri e, di conseguenza, tutti gli strati sociali, quindi si inizia a vedere come, ad esso, si accostino “le persone più povere dal punto di vista relazionale, culturale, economico. Le persone più fragili.”
Per alcuni, non si tratta più di un’evasione, di un divertimento, ma il gioco si tramuta in un’abitudine quotidiana, nella quale sfogare le proprie frustrazioni, una sorta di ossessione che degenera, nel tempo, in una dipendenza. Le conseguenze possono essere pesantissime sotto l’aspetto economico, e ricadere sulle famiglie delle vittime.
Eppure, mettere fine a questa assuefazione e riprendere possesso della propria vita è possibile. I servizi pubblici mettono a disposizione di chi ne voglia usufruire una serie di interventi multi professionali che coinvolgono anche le famiglie. Ma è essenziale che il soggetto debole prenda consapevolezza del proprio problema e sia seriamente motivato a risolverlo.
Un’analisi interessante, che affronta in maniera chiara ed esaustiva problemi di grande attualità, e si sofferma a considerare la condizione e le necessità di una fascia molto ampia della nostra popolazione, quella al di sopra dei sessantacinque anni, che, tuttavia, non sempre gode della considerazione che merita. Le loro difficoltà e la loro condizione vengono approfonditi a tutto campo, non soltanto in relazione alle problematiche legate al rapporto col gioco, che, come sottolineano gli autori, non colpisce solamente questa categoria sociale.
Croce e Arrigoni ci ricordano quanto il fenomeno delle dipendenze dal gioco sia sottovalutato in Italia, ribadiscono l’importanza della prevenzione e la necessità di restituire al gioco il suo valore essenziale, quello di attività ludica, perché, “il gioco è ciò che ci offre una parentesi ed una evasione dal lavoro, dalle preoccupazioni” e non può, non deve tramutarsi in un problema.