di Fabrizio Annaro
Il 4 dicembre 1975 morì Hannah Arendt. E’ stata una delle più acute e fini pensatrici del secolo scorso. Nata nel 1906 in Germania, ebrea, filosofa e allieva di Heidegger, scappò ai tempi della persecuzione contro gli ebrei per rifugiarsi negli Stati Uniti. Numerosi i suoi libri: Le origini del Totalitarismo, Sulla Rivoluzione, Vita Activa. Riuscì, con i suoi studi e le sue ricerche, a proporre una spiegazione convincente sulla genesi delle dittature sia nazista sia comunista; si è spesso interrogata sul perché l’ideologia marxista, che desiderava creare giustizia e pace sulla terra, in realtà si è rivelata una delle forme più oppressive e sanguinose della storia umana. Di indiscutibile bellezza “La banalità del male”, una raccolta di scritti e riflessioni pubblicate sul New Yorker in occasione del processo del secolo a uno degli artefici dell’olocausto, il nazista Adolf Eichmann. Era stato il Mossad, il servizio segreto israeliano, a rapire nel 1960 Eichmann in Argentina e trasferirlo in Israele dove fu processato. Il 31 dicembre 1961 il gerarca nazista sarà condannato a morte, l’esecuzione è avvenuta il 31 maggio del ’62. Come inviata al processo Eichmann, Hannah Arendt si convinse che il male si diffonde in modo banale e a volte si presenta come una necessità in grado di ribaltare la scala dei valori e di tramutare orribili pratiche “in ordinarie attività legali”.
Ma come è stato possibile che un’intera popolazione, quella tedesca, sia stata sedotta? Come mai la coscienza non si è ribellata di fronte a quella catastrofe umanitaria? Tutto cominciò con la “propaganda antisemita” fondata su “false verità”, formidabili slogan che trovarono consenso e radice nell’antisemitismo dilagante in Europa e nel mondo. Sono le parole, i linguaggi a fomentare l’odio, ad esaltare il razzismo, sostiene la Arendt, a preparare alla violenza, a creare il clima culturale che conduce alla guerra. Il razzismo pare giungere “in soccorso” agli uomini quando questi si sentono minacciati da qualcosa, soprattutto dalla diversità. Nella parole e nei toni violenti ed aggressivi, le idee malsane e razziste trovano una logica seducente, sino a ribaltare la scala dei valori e sostituire il bene con il male. La Arendt sembra voler suggerire che il male riesce a diffondersi in modo semplice, banale, sospinto dalla certezza del “così fan tutti”.
La Arendt è stata studiosa della Politica che lei stessa definisce “luogo del linguaggio”, della parola, del logos, ambito in cui si esaltano vizi e virtù dell’umanità. Secondo Hannah Arendt il pregiudizio è alla base della formazione del consenso. Il cittadino nelle sue scelte politiche è trascinato dall’emotività. Il leader è amato, osannato, al di là della ragione, al di sopra dell’evidenza, indipendentemente dai suoi misfatti. Solo il tracollo dei regimi sconfigge il tiranno togliendolo dalla scena della storia.