Il 24 novembre 1864 nasceva ad Albi, in Francia, un piccolo grande uomo. Soffriva di una malattia genetica delle ossa, la picnodisostosi, una malattia con gli stessi sintomi del nanismo e, nonostante, la sua famiglia fosse ricca e nobile, in quel tempo era inguaribile.
Lui si chiamava Henri-Marie-Raymond de Toulouse-Lautrec-Montfa. Piccolo, nel senso di basso, con una grande testa, in tutti i sensi, seppe dimostrare nella sua breve vita di essere un vero genio. La vicenda biografica non può essere disgiunta dalla sua opera: quel fisico deforme e perennemente dolorante e le sue scelte di vita, il quartiere parigino dove visse sono elementi che aiutano a comprendere ed amare i manifesti, gli oli, i disegni.
Fu proprio questa grande sofferenza che gli consentì di avere “uno sguardo allargato i cui particolari non sfuggono” come scrive il critico Giorgio Cortenova.
Uno sguardo concentrato sulla Ville Lumiére di fine secolo, attraversata da tensioni sociali che sfociano nella proclamazione della Repubblica nel 1870 e, l’anno dopo, nella Comune di Parigi. Una città, e un quartiere soprattutto, Montmartre, abitato da Monet, Degas, da Puvis de Chavannes, artisti impressionisti con cui condivideva solo lo spirito anti-accademico.
Toulouse-Lautrec é più proiettato verso l’Espressionismo e l’attenzione a derelitti e meretrici lo conferma, esattamente come è sensibile ai primi vagiti dell’ Art Nouveau e tutta la produzione dei suoi manifesti lo testimonia.
Dopo gli studi al liceo, la sua formazione avviene negli atelier di amici di famiglia e di pittori che non raggiungeranno mai l’apice del successo, ma che comunque che gli insegnano lo studio dal vero e gli impongono una maggiore disciplina artistica. E’ l’incontro con Edgar Degas a imprimere una svolta. Il giovane Henri è un vero dandy: frequenta l’alta società come il circo e i cabaret. E’ il 1884 quando illustra le canzoni dell’amico e cantante Aristide Bruant e conosce la modella e artista Suzanne Valadon con cui ebbe una relazione durata due anni.
Montmartre è il suo quartier generale: con i suoi cabaret, le ballerine, i pittori affermati e quelli disperati come Vincent Van Gogh, di cui diviene amico tanto da difenderlo a duello.
E sulle sue tele e manifesti ricostruisce quel mondo con disintanto, arguzia e partecipazione. Una rappresentazione del “vizio” ricca di umanità. A Ferragosto del 1901, a Parigi viene colpito da paralisi. Lo trasferiscono al Castello di Malromé, in Gironda, dove la madre si prende cura di lui, tanto che riesce a dipingere. Ma meno di un mese dopo, il 9 settembre, muore, ucciso dai suoi stessi eccessi, forse la sifilide, forse le conseguenze dell’alcolismo.
Ha soli 37 anni.
Daniela Annaro