di Francesco Troiano
Per alcuni anni, all’epoca ero un ragazzino, siamo andati a trovare i miei zii che abitavano ad Affori.
A casa loro si pranzava all’abruzzese. Mia zia Trieste era la regina del timballo. Il termine timballo deriva dalla parola tamburo: uno sformato di lasagna, solida come una scatola, ricolma di polpettine, sugo con i peperoni e besciamella a volontà. Una fucilata gastronomica, che possedeva però, una digeribilità e una leggerezza misteriose e sorprendenti.
Quando ci si alzava da tavola, mio zio Alfredo (famoso suonatore di piatti nella banda d’Affori) faceva suonare su un giradischi della Telefunken dei 78 giri di musica sinfonica russa: un suono monumentale e imponente. I compositori avevano nomi difficili, ma che non ho mai scordato: Tarkowski, Mussorgski, Prokofief.
Con la mente e il cuore turbinanti di quelle sinfonie, alle quattro del pomeriggio, si usciva per andare al Cral dei dipendenti del Paolo Pini, l’attuale ex-manicomio, dove mio zio lavorava da infermiere.
C’era una recinzione che divideva il piccolo giardino dalla zona di passeggio dei signori ricoverati, alcuni di loro, fermi di fronte alla recinzione a osservarci.
C’era una donna in mezzo a loro che aveva attirato la mia attenzione. Era una signora piuttosto robusta, con uno sguardo intenso e un odore forte proveniente dal suo lasciarsi andare. Ci guardava mentre la mano destra stringeva un flauto dolce.
Una visione strana, quasi l’immagine di un sogno.
Forse, era bravissima a suonare quello strumento, o molto più semplicemente, non si separava da quell’oggetto perché appartenente a qualcuno che le ricordava un affetto o un ricordo che, nel dolore, le regalava qualche momento di serenità.
Come avrei voluto farle ascoltare la musica che mio zio mi aveva appena regalato. Poterla ritrovare quarant’anni dopo, e, come poi sarebbe successo, fare teatro in quel luogo e condividere umanità, e storie incredibili rimaste conficcate nella memoria e nell’anima.