di Alessandro Arndt Mucchi
Secondo Hannibal Lecter, il desiderio nasce da quello che osserviamo ogni giorno, ma non è sempre così. Certo bisogna conoscere per desiderare, ma è anche il bisogno a muovere le azioni e far volere il cambiamento. Con buona pace del decimo comandamento, desiderare la roba d’altri è fondamentale per il progresso: se non so come sbarcare il lunario, ecco che il desiderio di occupare il posto di qualcuno più bravo (o fortunato) è inevitabile, desidero la sua roba, insomma. A questo punto l’essere umano si trova di fronte a una scelta, è obbligato a fare qualcosa per uscire dalla dissonanza cognitiva, una condizione di disequilibrio che ben spiega Esopo con il racconto della volpe e dell’uva: deve decidere se ridurre le sue aspettative (tanto l’uva era acerba) o darsi da fare per modificare il mondo che lo circonda (perseverare nel tentativo di raggiungerla).
Igor Stravinskij è in questa condizione nel 1918, in Svizzera, lontano dalla Russia in piena rivoluzione e con il bisogno di trovare una fonte di sostentamento. È irrequieto, in disequilibrio, sa che merita più di quello che ha e decide di agire, visto che una mente come la sua certo non può ridurre le proprie aspettative. Insieme allo scrittore Charles Ferdinand Ramuz, al direttore d’orchestra Ernest Ansermet e al pittore René Auberjonois, si imbarca in quella che lui stesso definirà poi una “folle iniziativa”, l’idea di organizzare uno spettacolo di marionette itinerante da portare a spasso nei villaggi svizzeri così da migliorare le finanze del gruppetto (anche i suoi compari navigavano in cattive acque).
Stravinskij si sarebbe chiaramente occupato dell’accompagnamento musicale, ma la prima sfida che deve affrontare è squisitamente logistica: bisogna scrivere un arrangiamento che preveda solo una manciata di musicisti, visto che l’ensemble deve potersi spostare comodamente e non si può certo immaginare intere file di archi in mezzo alle piazze o nei piccoli teatri dei paesini che imperlano le Alpi e le valli svizzere. Pochi strumenti dunque, ma il compositore non vuole rinunciare alla varietà di sonorità che gli servono per dare sfogo al suo stile raffinato e spiazzante, e allora ne prende qualcuno per ogni timbro: violino e contrabbasso per gli archi, clarinetto e fagotto per i legni, cornetta e trombone per gli ottoni e un set di percussioni (dal tamburo alla cassa passando per triangolo, piatto sospeso, tamburello basco e due rullanti) a strigliare l’attenzione del pubblico.
Parallelamente al lavoro di Stravinskij, Ramuz si occupa del testo: prende spunto da alcune fiabe russe raccolte da Aleksandr Nikolaevič Afanas’ev e le mescola con il Faust fino a ottenere l’Histoire du soldat: un’ opera da camera che dura un’oretta abbondante e quasi sorprende per come strumenti così lontani riescano a rimanere in equilibrio tra loro.
Stravinskij, insomma, libera il suo genio compositivo e fa di necessità virtù, creando una suite che avrà ben più fortuna di quanta ne sperasse il musicista, forse anche grazie al suo essere così eterogenea, tanto da riuscire a toccare le preferenze di pubblici apparentemente lontani tra loro.
I molti viaggi del compositore e una vita a cavallo tra i continenti (dopo la Russia vive in centro Europa, e poi negli Stati Uniti dove rimane fino alla morte nel 1971) gli permettono di padroneggiare stili diversi e di mescolarli senza che stridano tra loro. Con l’Histoire du soldat, Stravinskij diventa un po’ il corrispettivo musicale di MacGyver, l’eroe della serie TV anni ’80 che con un coltellino svizzero, un pezzo di corda e una graffetta risolveva le situazioni più difficili.
Come MacGyver, anche Stravinskij parte da un bisogno concreto e sfrutta gli strumenti che lo circondano, anche se apparentemente molto lontani uno dall’altro, evitando di arrendersi alle difficoltà.
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