di Roberto Dominici
Per coloro che pensano di regalare per queste festività un bel libro consiglio caldamente l’ultima fatica di Telmo Pievani che insegna presso il dipartimento di Biologia dell’Università di Padova dove ricopre la prima cattedra di Filosofia delle Scienze biologiche.
Pievani è stato ospite a Lissone in una conferenza che ho organizzato qualche anno fa ed é molto attivo anche nella divulgazione scientifica seria sui mass media. Il titolo del libro è “La Natura è più grande di noi”. Storie di microbi, di umani e di altre strane creature.
Uno degli assunti principali parte dalla considerazione che la specie Homo Sapiens ha sempre considerato il pianeta Terra come il “proprio” giardino. Soprattutto nella cultura occidentale degli ultimi secoli, abbiamo costruito una gerarchia che vedeva l’umano (in particolare quello bianco) in cima ad una piramide, con potere assoluto sul resto del mondo naturale.
La superficie terrestre quindi è stata scavata, le materie prime estratte, e abbiamo piegato gran parte degli esseri viventi al nostro servizio, scegliendo e moltiplicando alcuni, riducendo o estinguendo altri. Una strategia accelerata nei decenni scorsi che, tuttavia, si sta mostrando, dopo un lungo periodo di progresso e sviluppo apparentemente inarrestabili per un’ampia parte della popolazione mondiale, insostenibile.
Noi umani, soprattutto quelli che vivono nel ricco occidente, abbiamo pensato che le nostre azioni avessero un impatto sulla natura, ma che di fatto saremmo stati sempre un passo avanti ad essa, in quanto dominanti, creativi e superiori.
Di fronte ai mutamenti causati dalle attività umane dobbiamo rimettere tutto in prospettiva: noi abbiamo modificato, più o meno consciamente, il vasto ecosistema planetario di cui facciamo parte, e ora ne subiamo le conseguenze. In questo senso “la natura è più grande di noi”: il titolo scelto è un invito a ripensare il posto della nostra specie, con nuova consapevolezza.
Pensiamo per esempio alla perdita del polmone del mondo: la foresta amazzonica. Nel 2017 risultava che più del 20% dell’intera superficie forestale fosse stata disboscata. Con 783.828 km2 (più del doppio della superficie dell’Italia) di aree boschive in meno rispetto al 1970. L’allevamento intensivo è responsabile da solo di circa l’80% di tutte le deforestazioni nella regione, mentre la restante parte è legata allo sfruttamento del territorio per fini agricoli (principalmente soia e olio di palma), minerari o legato al mercato del legname.
Sempre nel 2017, il presidente brasiliano Michel Temer ha abolito una riserva naturale amazzonica delle dimensioni della Danimarca negli stati settentrionali del Brasile, Pará e Amapá. Con Jair Bolsonaro la deforestazione in Brasile è aumentata in modo significativo. La combinazione di riscaldamento globale e deforestazione rende il clima regionale più secco e potrebbe stravolgere il delicato equilibrio della foresta pluviale trasformandone una parte in savana.
Questo è solo un esempio, che però ci obbliga a considerare in modo diverso l’avvenire del pianeta e dei suoi abitanti guardando in modo rinnovato alla grandezza della natura, il suo essere meravigliosa che si percepisce a ogni scala di osservazione. È nella scala contemporaneamente globale e microscopica della pandemia da COVID-19. È nella lunghezza dei telomeri, le piccole porzioni di DNA poste all’estremità dei cromosomi che influenzano la longevità di cellule e individui, e che se modificati possono dare un piccolo assaggio di immortalità. Ma è anche nella profondità della storia, nella sua “fase preistorica” che per millenni abbiamo considerato poco rilevante e che invece ricerche multidisciplinari arricchiscono continuamente di particolari.
Non ultimo il fatto che l’Homo sapiens non è così unico e poche decine di migliaia di anni fa c’erano cinque specie di Homo sul pianeta. Con almeno uno di loro, il celebre Neanderthal, ci siamo anche accoppiati, e ne portiamo le tracce nel nostro genoma. Nel corso della storia umana abbiamo assistito all’evoluzione del nostro corpo e della nostra mente biologica e culturale.
Oggi occorre porsi una domanda fondamentale: quanto tempo abbiamo ? Abbiamo cambiato il clima e ne paghiamo e pagheremo le conseguenze, ma se vogliamo davvero avere il tempo di evolverci ulteriormente, dovremo far ricorso al «pensiero delle cattedrali»: la costruzione di qualcosa che va oltre la nostra generazione, senza miopie nazionali o temporali, con pazienza, obiettivi chiari, continuità di intenti e di azione politica decisa e libera da interessi corporativi. Sarà indispensabile assumere un’attitudine umile, perché abbiamo le possibilità di modificare in meglio il sistema di cui siamo una parte e non certo i padroni assoluti.