di Roberto Dominici
Il Labirinto: un viaggio nella complessità e incertezza del nostro tempo. Seconda parte
“Two roads diverged in a wood, and I took the oneless traveled by,
and that has made all the difference”.
“Due strade divergevano in un bosco, ed io, presi quella meno battuta,
e questo ha fatto tutta la differenza”.
(“The road not taken” di Robert Lee Frost)
la sua assenza di luce, la mia amarezza.
Il viaggio di Ulisse è caratterizzato da difficoltà e numerosi ostacoli. Nel mondo greco antico, uno spazio irto di pericoli eppure ordinato secondo uno schema ben preciso evocava la figura del labirinto. La raffigurazione del labirinto era un’immagine simbolica in quanto forma di un’idea, di un concetto astratto. Il concetto quello del non-rettilineo, o non lineare, del difficile, del tortuoso. Il labirinto con le sue curve e i suoi meandri funzionava come raffigurazione di quanto fosse non-immediato, non-lineare. Uno dei significati più radicati che il labirinto assunse nel mondo arcaico quello di percorso iniziatico, un percorso costituito da pericoli e ostacoli che un giovane deve affrontare e superare per dimostrare di possedere le qualità richieste a un uomo adulto, degno di essere ammesso alla vita sociale e politica del gruppo a cui appartiene. Ulisse compie un percorso dallo schema razionale e ordinato verso un mondo irto di ostacoli, un viaggio iniziatico: l’eroe, per riappropriarsi del suo regno ad Itaca e del suo ruolo di sovrano e di marito, deve superare imprese difficili lontano da casa e dal mondo. Si delinea così l’immagine dell’Odissea come labirinto, dove il non-rettilineo, il tortuoso si realizza attraverso il mare (labirinto marino) e successivamente nel palazzo di Itaca (labirinto di pietra).
Dal linguaggio delle parole a quello dei gesti, a quello del silenzio, dall’intelligenza razionale a quella emotiva si ascolta il rumore e le parole del mondo facendo silenzio dentro di noi. Quando conteniamo con le parole le nostre aggressività, le nostre angosce allora la parola è terapeutica altrimenti diventa contenzione delle parole nelle profonde stanze della mente; poi c’è il labirinto della mente smarrita perduta nei meandri misteriosi della malattia in un mondo fatto di gesti, di un passato che aliena, di ricordi che non ritornano, silenzi e occhi che si perdono, malattia che assume l’incubo del tunnel da cui si vuole uscire al più presto possibilmente salvi.
Il labirinto richiama in Occidente la dimensione di chi si trova smarrito senza più certezze o riferimenti sicuri che possano fare da guida, senza una Fede cui aggrapparsi illusoriamente, in cui credere, con cui consolarsi, lenire l’angoscia della propria sofferenza o disperazione di esistere: mi vengono in mente le immagini e le parole del nobile cavaliere Antonius Block ne “Il settimo sigillo” di Bergman (Dassiebente Siegel), che sfida a scacchi la morte. Questo film mi offre lo spunto per alcune riflessioni, partendo proprio da una frase del protagonista: “Questa è la mia mano, posso muoverla, e in essa pulsa il mio sangue. Il sole compie ancora il suo alto arco nel cielo. E io… io, AntoniusBlock, gioco a scacchi con la Morte”. Più che il tema del trapasso, questo film ci pone di fronte a un interrogativo più grande, e cioè il rapporto tra l’uomo e l’onnipotente, di fronte alla caducità della vita, attraverso un percorso che porta il protagonista a confrontarsi con la paura e la disperazione degli uomini di fronte alla morte, un timore che è anche sinonimo della mancanza di fede.
CAVALIERE: Io voglio sapere. Non credere. Non supporre. Voglio sapere. Voglio che Dio mi tenda la mano, mi sveli il suo volto, mi parli.
MORTE: Il suo silenzio non ti parla? (Ingmar Bergman, da: Il settimo sigillo).
Un’interpretazione condivisibile sul messaggio del film è che la Fede vince anche la morte, lo stesso messaggio originario che si torva nell’apocalisse; Quando l’agnello aprì il settimo sigillo, nel cielo si fece un silenzio di circa mezz’ora e vidi i sette angeli che stavano dinnanzi a Dio e furono loro date sette trombe» (Apocalisse, 8,I, frase che apre il film); il Cavaliere possiede la fede ma è assalito dal dubbio e lo scudiero invece è materialista e indifferente. Il Cavaliere, che ritorna deluso dalla Crociata, attraversa un periodo di crisi e confidandosi con il monaco, che in realtà è la Morte travestita, dice che il suo cuore è vuoto come uno specchio, pieno di paura e indifferenza verso i suoi irriconoscibili simili e alla domanda della Morte: “Non credi che sarebbe meglio morire?” il Cavaliere risponde che l’ignoto lo atterrisce e che vorrebbe avere la certezza dell’esistenza di Dio perché se Dio non esiste l’intera esistenza è un vuoto senza fine.
“In queste tenebre dove tu affermi di essere, dove noi presumibilmente siamo… in queste tenebre non troverai nessuno che ascolti le tue grida o si commuova della tua sofferenza. Asciuga le tue lacrime e specchiati nella tua stessa indifferenza”…(Jöns ad Antonius).AntoniusBlocks’imbatte anche in una famiglia di saltimbanchi, che sembrano non accorgersi della tragedia che li circonda, uniti solo dall’amore reciproco e da un sincero rispetto. Questo incontro aiuterà Antonius a ritrovare la fede e l’unione con Dio. Allora egli accetta di morire sacrificandosi per la coppia di innamorati. L’autentico significato del film consiste nella rinuncia da parte dell’autore a fornire una risposta univoca all’angoscioso problema del crociato: egli ne ha invece adombrata una soluzione nella salvezza della Grazia che assiste i semplici, che richiama il discorso delle beatitudini o della montagna di Gesù (Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio…Matteo 5,3-12).
Una speranza, quindi, e al tempo stesso un monito.
In una Danimarca dilaniata dalla diffusione della peste si assiste al crollo della “religione delle certezze” tipicamente medievale e dantesca, dove non esisteva il dubbio ma solo la piena e spesso passiva Fede cristiana, accompagnata dalla ragione (incarnata dallo scudiero Jöns), che aiutava l’uomo a comprendere buona parte degli argomenti biblici. Ma se questi erano i dettami della Chiesa e del tomismo, la confessione di Antonius sancisce la nascita di un credo più dilemmatico, che induce a riflettere sull’oscuro ignoto metafisico, ma allo stesso tempo più consapevole. Non c’è più l’individuo che si perde nel guazzabuglio delle sue angosce e delle sue inquietudini, ma che invece, confortato dalla collettività, dall’amore, dalla famiglia e da sensazioni fortemente laiche, si appressa al Giudizio Finale, credendo in un Dio, sensibilmente lontano, ma umanamente misericordioso, che ricompensa la carità quella che Antonius ha con la famiglia di saltimbanchi, che lo aveva salvato dalla sua fede angosciante; lui stesso dice infatti che “la fede è una pena così dolorosa: è come amare qualcuno che è lì fuori e che non si mostra mai per quanto lo si invochi“, sbarazzandosi nettamente del foscoliano “nulla eterno“: solo apprezzando ciò che si ha, “senza pensare al traguardo” direbbe Orazio, l’uomo riesce a vivere in piena armonia con la sua coscienza. In conclusione, il labirinto è la dimensione soggettiva che permette di fare un viaggio non solo verso il centro dell’Io, del Sé, ma anche nelle periferie grigie dell’anima dove la storia di quello che siamo è “contaminata”, intrisa dalla vita che abbiamo fatto dalle relazioni che abbiamo intessuto. C’è infine, un labirinto, quello del silenzio, alla fine del quale il rischio o la fortuna più grande non è perdersi ma ritrovarsi, scoprire che tutta l’incomprensione, tutto il dolore e il pianto, la solitudine dei giorni erano l’unico modo, l’unico viatico per riuscire a ritrovare la propria anima.
Può la memoria salvarci dalla condanna del labirinto? La continua ricerca della rievocazione e il recupero di ciò che è stato, possono sortire, come scrisse un grande scrittore educato e cresciuto al culto della memoria quale Gesualdo Bufalino, uno ‘spontaneo sortilegio di ombre cinesi, teca di magiche epifanie, cinematografo di larve dissepolte dalla sabbia del tempo’ (Museo d’ombre). In questo, l’archeologo e lo scrittore sono simili: entrambi restituiscono luce all’ombra, rinominano i segni muti del passato e lo fanno rivivere nel sortilegio della teogonia dell’essere.
Se non sono più una donna, perché sento ancora di esserlo?
Se non sono più degna di considerazione, perché ne ho bisogno?
Se non sono più sensibile, perché amo la morbidezza della seta sulla mia pelle?
Se non riesco più ad emozionarmi, perché la lirica o il canto muove corde profonde in me?
Ogni mia cellula sembra gridare al mondo che, effettivamente,
esisto e che la mia esistenza deve essere stimata da qualcuno!
Senza qualcuno che mi accompagni in questo labirinto,
senza il sostegno di un compagno di viaggio che comprenda il mio bisogno
di sentirmi apprezzata, come posso resistere al resto di questo viaggio sconosciuto?
MCGOWIN DF. Living in the labyrinth. Cambridge: Mainsail Press, 1993.
L’esistenza è una trama insondabile di assurde solitudini e di egoismi, un grumo dolente di enigmi, dimensioni irrisolte e grottesche e a volte perfino ridicole.
Concludo questo breve saggio con un riferimento ad un altro brano musicale composto nel 1997, Labyrinth di cui riporto il testo integrale, cantato da Elisa inserito nell’album “Pipes and Flowers”, e che bene descrive lo stato di smarrimento dell’uomo e donna di oggi di fronte all’enigmatico e irrisolvibile senso delle nostre scelte che condizionano la nostra esistenza, il nostro destino.
Just like a spy through smoke and lights
I escaped through the back door of the world
And I saw things getting smaller
Fear as well as temptation
Now everything is reflection as I make my way through this labyrinth
And my sense of direction
Is lost like the sound of my steps
Is lost like the sound of my steps
Chorus:
Scent of dried flowers
And I’m walking through the fog
Walking through the fog
Scent of dried flowers
And I’m walking through the fog
Walking through the fog
I see my memories in black and white
They are neglected by space and time
I store all my days in boxes
And left my whishes so far behind
I find my only salvation in playing hide and seek in this labyrinth
And my sense of connection
Is lost like the sound of my steps
Is lost like the sound of my steps,
Words sounds music and I’m spinning in
Words sounds music and I’m spinning out
But I want to stay here
‘Cause I am waiting for the rain
And I want it to wash away
everything, everything.
Labirinto (traduzione)
Proprio come una spia attraverso fumo e luci
sono scappata attraverso la porta sul retro del mondo
e ho visto le cose diventare più piccole
la paura diventare tentazione.
adesso tutto è un riflesso visto che
ho percorso la mia strada attraverso questo labirinto
e il mio senso d’orientamento
è perso come il rumore dei miei passi
è perso come il rumore dei miei passi
odore di fiori secchi, e sto camminando nella nebbia
camminando nella nebbia,
odore di fiori secchi, e sto camminando nella nebbia
camminando nella nebbia,
vedo i miei ricordi in bianco e nero
sono trascurati dal tempo e dallo spazio
conservo tutti i miei giorni in degli scatoloni
ed ho lasciato i miei desideri così indietro
trovo la mia unica salvezza nel giocare
a nascondino in questo labirinto
e il mio senso di conoscenza
è perso come il rumore dei miei passi
è perso come il rumore dei miei passi
odore di fiori secchi, e sto camminando nella nebbia
camminando nella nebbia
odore di fiori secchi, e sto camminando nella nebbia
camminando nella nebbia
parole, suoni, musica, e sto girando
parole, suoni, musica, e mi sto prolungando
ma voglio restare qui perché
sto aspettando la pioggia
e voglio che lavi via tutto, tutto, tutto
odore di fiori secchi, e sto camminando nella nebbia
camminando nella nebbia,
odore di fiori secchi, e sto camminando nella nebbia
camminando nella nebbia.
Il senso di smarrimento nella nebbia e nel labirinto vortiginoso delle emozioni contraddittorie emerge anche nel testo: “Nel mio infinito cielo di emozioni” tratto dall’album Tortuga, di Antonello Venditti, scritto nel 2015, dove recita:
Qui nel mio infinito mondo di emozioni,
dove non riesco mai a portare te,
vieni a prendermi, fammi compagnia… dentro al mio labirinto…
Esiste un labirinto del cuore e uno delle mente, percorrerli non significa necessariamente ri-trovarsi alla fine di essi.