di Francesca Radaelli
“La verità è che io non sognavo di fare il pittore”. Marco Petrus ci tiene a precisarlo, mentre racconta di come pittore lo è diventato. Classe 1960, nato a Rimini, ma milanese dal tempo delle scuole elementari, oggi è uno degli artisti più affermati sulla scena contemporanea italiana. Lo hanno definito ‘pittore-architetto’: i suoi quadri sono come tante finestre affacciate su un mondo fatto di vedute cittadine, edifici silenziosi, dettagli architettonici dalle geometrie quasi ipnotiche.
All’interno del suo studio-laboratorio – nel cuore del quartiere Isola del capoluogo lombardo, a pochi passi dai grattacieli di Piazza Gae Aulenti – tra gli attrezzi del mestiere e gli spazi per dipingere, le tele appoggiate o appese alle pareti testimoniano le ultime tappe del suo percorso artistico. Dai cataloghi delle mostre che Marco Petrus mi invita a sfogliare fanno capolino anche le tappe precedenti: le architetture milanesi – Ca’ Brutta, Torre Velasca, ma non solo – , gli ‘Upside-down’, le Vele di Scampia e le serie di ‘Matrici’.
Sopra di noi, più in alto di tutte le altre tele presenti nello studio, c’è un quadro di suo padre, Vitale Petrus. Pittore anche lui. “Era nato a Kiev, in Ucraina, ma la sua famiglia aveva origini italiane. Si trasferì in Italia, studiò e si diplomò all’accademia di Venezia, per poi intraprendere l’attività di pittore”.
Rimini è la città di nascita ma, dopo un breve periodo a Sesto San Giovanni, è a Milano che Marco abita sin da bambino. Qui vive un’adolescenza ‘travagliata’ che , dopo diverse esperienze scolastiche, lo conduce al diploma di Liceo artistico. “Dopo vari tentennamenti mi iscrissi alla facoltà di Architettura, ma in quello stesso anno, il 1984, mio padre morì prematuramente”.
La famiglia è composta da sei fratelli e bisogna rimboccarsi le maniche. Così, lasciata l’università, Petrus apre una stamperia d’arte in zona Città Studi. “Mi aiutarono alcuni amici di mio padre”, ricorda oggi. “Il pittore Vittorio Basaglia, per esempio, che mi portò da Venezia un vecchio torchio per la stamperia”. (Il torchio c’è ancora, posizionato in un angolo dello studio di adesso).
Col passare del tempo l’atelier diventa un ambiente frequentato da artisti e amici, ma Petrus impiega qualche anno per convincersi a iniziare a dipingere lui stesso. “Ho iniziato dalle incisioni su carta, prima di passare alla tela. Poi, nei primi anni 90, sono stato invitato a una rassegna per giovani artisti al Palazzo della Permanente e, inaspettatamente, ho vinto il premio”. Da lì il percorso di pittore prosegue, in una evoluzione continua.
L’ispirazione
Come si diventa pittore? E, soprattutto, dove si trova l’ispirazione?
A guardare i primi quadri di Marco Petrus la risposta sembra evidente: dalla città. Sulle sue tele si riconoscono le architetture milanesi dagli anni Trenta in poi, ma anche quelle di altre città, Monza compresa, italiane e non solo.
Ma ad ascoltarlo parlare, si percepisce come l’ispirazione, e la vocazione, siano qualcosa di molto più complesso da definire. “Da ragazzo non sognavo di fare il pittore”, ripete, “ma avevo l’idea del viaggio. E viaggiando ero sempre incuriosito dalle architetture. Così ho iniziato con la documentazione delle città. Studiavo gli itinerari in base alle architetture che mi interessavano e una volta sul posto scattavo fotografie”. In Sudamerica subisce il furto della macchina fotografica, che era costata tanti sacrifici. E dalla fotografia si sposta verso la pittura.
“Iniziai a scattare fotografie con una Kodak Instamatic”, ricorda. “Progettavo itinerari, scattavo foto e poi in studio cercavo di riportarle sulla tela, riproducendo il mio paesaggio urbano”. Un paesaggio sempre disabitato da persone, ma riempito da volumi architettonici e colori che mutano nel corso del tempo. Sfogliando i cataloghi delle sue opere, si vede il cielo cambiare colore e si ha la sensazione di compiere un vero e proprio viaggio attraverso un tempo e uno spazio fatto di città, edifici, dettagli, luci e colori che sembrano diventare sempre più astratti.
Il metodo di lavoro
Le idee, al pittore, vengono sì dall’osservazione del mondo, ma anche durante la pratica del lavoro in studio. “Nei primi anni 2000 cominciai a capire che il lavoro che avevo fatto fino ad allora cominciava a starmi stretto. Così iniziai a realizzare dei collage degli edifici che avevo dipinto fino ad allora. Accostando dipinti diversi nacque anche la serie degli Upside-down”.
Anche il metodo di lavoro è cambiato nel tempo: “All’inizio per dipingere dovevo viaggiare, quindi il lavoro proseguiva nello studio, e l’obiettivo finale era l’esposizione”. Poi, col passare del tempo, avere delle immagini a disposizione è diventato sempre più semplice. “Oggi uso molto Instagram, ma anche Google Earth. Per realizzare il lavoro su Scampia non sono andato a Napoli di persona”.
Un esempio: le Matrici
Proprio il lavoro sulle Vele di Scampia, protagonista dell’esposizione alle Gallerie d’Italia di Napoli nel 2017, è un bell’esempio di come può funzionare la ricerca artistica e l’ispirazione. In un primo momento, le Vele di Scampia fanno pensare alle “Rovine e macerie” di Marc Augè: le rovine imponenti dell’antichità contrapposte alle macerie della contemporaneità. Ma al pittore vengono in mente anche le foto di Beirut scattate da Gabriele Basilico all’indomani della guerra civile. E le immagini delle carceri d’invenzione di Giovanni Battista Piranesi. “Sono tutte suggestioni, che a volte occorre ‘far decantare’ per un po’”. E poi magari prendere un’altra strada.
“Il senso che ho voluto dare al mio lavoro non è stato tanto quello di raccontare quella realtà dal punto di vista sociale o sociologico”, spiega Marco Petrus, “ma piuttosto quello di concentrarmi sull’architettura delle Vele, sul progetto originario di Franz di Salvo, ispirato direttamente all’Unité d’habitation di Le Corbusier”.
Un progetto di cui rischiano di rimanere solo macerie. Anche viste attraverso Google Earth, in effetti, Le Vele appaiono ormai fatiscenti. E allora l’approccio di Marco Petrus cambia. La trasposizione sulla tela diventa qualcosa di più complesso: “Era necessario interpretare ancora di più”, racconta. “Inizialmente provai a fare una sorta di collage, cercando di ispirarmi a quelli di Matisse e scomponendo ciò che avevo già dipinto. Poi mi resi conto che lo stesso effetto si poteva ottenere con la pittura”. Nasce così la serie delle ‘Matrici’: quadri di quadro, pezzi di architettura già dipinti in un quadro più ampio, ma sottratti dal loro contesto per comporre nuovi disegni geometrici.
Nell’esposizione realizzata alle Gallerie d’Italia di Napoli le composizioni più astratte e geometriche vengono accostate al dipinto dell’architettura da cui i diversi dettagli sono tratti.
Il pittore in mostra
Proprio le esposizioni sono una parte imprescindibile del mestiere del pittore. “Non sempre è facile gestire questo aspetto”, sottolinea Marco Petrus. Racconta che a volte la programmazione delle mostre richiede tempi più lunghi del previsto. Nel frattempo il percorso dell’artista va avanti e non sempre risulta sincronizzato con i calendari delle esposizioni. “A volte i progetti nascono un po’ per caso: è capitato che qualcuno riconoscesse un edificio della sua città in un mio quadro e da lì partisse una collaborazione”.
Un altro aspetto dell’essere pittore è anche il trovarsi a essere ‘raccontati’ su cataloghi di mostre e articoli di giornale. Alla domanda su che effetto faccia vedere i propri quadri interpretati e spiegati dai critici d’arte, Marco Petrus sorride: “In realtà guardo a questo con molta curiosità”, risponde. “A volte è capitato che si citassero come miei ispiratori pittori con cui non sentivo affinità particolari. Però non ho un messaggio precostituito da trasmettere con il mio lavoro, né un’ideologia di qualche tipo. Mi interessa vedere come viene guardato ciò che faccio dai critici e anche dal pubblico. Ma poi vado avanti per la mia strada”.
Dieci domande a Marco Petrus
1. Quando hai deciso di fare questo lavoro?
Non c’è un momento preciso. Ma dei passaggi importanti. Per esempio la vittoria del premio San Carlo Borromeo al Palazzo della Permanente di Milano nel 1993.
2. Perchè?
Tra le altre cose, perché è stata una vittoria totalmente inaspettata.
3. In che cosa consiste il tuo lavoro, in una frase?
Curiosità, passione, tenacia.
4. Una dote che bisogna proprio avere per svolgere il tuo lavoro.
La pazienza.
5. Il peggior difetto di chi svolge questo lavoro?
Atteggiarsi da artisti.
6. Qual è il lato più bello del tuo lavoro?
L’indipendenza (anche se in realtà è relativa).
7. Qual è il lato più difficile?
Iniziare. Prendere consapevolezza che si può intraprendere questa strada.
8. La cosa più divertente che ti è capitata al lavoro.
Una cosa che mi è sempre piaciuta è pianificare i miei ‘viaggi di lavoro’.
9. Come pensi sarà il tuo lavoro tra 20/30 anni?
Difficile dirlo. Oggi nel mondo dell’arte si stanno facendo sempre più largo il digitale e le NFT. Potrebbe imporsi un cambiamento di linguaggio. Però penso anche che l’arte concettuale già era ben affermata quando io ho cominciato a dipingere, eppure la pittura non è ancora morta. Forse l’approccio del pittore potrà rimanere sempre lo stesso.
10. Dove trascorri le tue ferie?
A Venezia, dove da diversi anni ho un piccolo pied-à-terre. È una città a cui sono legato perché fa parte della storia della mia famiglia. E poi senza dubbio è un luogo di grande bellezza.