di Aldo Germani
Mia sorella ha appena partorito, e non lo doveva sapere nessuno. Quando la prof di italiano se ne è uscita con quell’idea del presepe vivente, un mese fa, io però me lo sono lasciata scappare. “E se quest’anno pensassimo a un presepe alternativo?” ha chiesto alla classe. “Insomma non le solite statuine o il torrente con la stagnola, qualcosa di più attuale, che ne dite?”
Se ne stavano zitti tutti, qualcuno ha alzato le spalle, sembrava una cosa buttata lì, senza pretese. “In alcuni paesi ci sono persone in costume che il presepe lo mettono in scena davvero, sapete? Ne fanno uno anche qui vicino,” insisteva. “Potremmo chiedere di partecipare, invece di andarlo semplicemente a vedere.” Nessuna reazione. Volti bassi, qualche sghignazzo, la paura tra i banchi che potesse fare sul serio. Eppure non si è fermata. Incurante del disagio di tutti, ha sparato la sua cartuccia migliore.
“Certo,” ha aggiunto quasi tra sé, “sarebbe fantastico avere un bambino che nasce davvero …”
E a quel punto, non so ancora perché, ho alzato la mano e … “ce l’ho io un bambino che nasce,” ho abbozzato.
Si sono voltati tutti, la prof mi fissava stranita, a me si è spenta in gola la voce. Era un segreto, mia madre mi aveva fatto capire che non si doveva sapere, me lo aveva fatto giurare che non lo avrei detto a nessuno. Perché si vergogna, mia madre, di quello che è successo. Mia sorella ha diciassette anni e un ragazzo non ce l’ha, ma è rimasta incinta lo stesso. Quando i miei l’hanno saputo, in casa sono volati i bicchieri. Non le hanno parlato per settimane, li sentivo litigare, poi hanno deciso che poteva tenerlo. “È una creatura, non te ne puoi liberare così come niente,” le ha detto mia madre. “E così ti impari a stare più attenta la prossima volta.”
Mia sorella era un po’ contenta e un po’ no. Cambiava umore in continuazione, se ne stava chiusa in camera sua, non mi voleva tra i piedi. “Sei alle medie,” ringhiava, “sei piccola per capire.” E invece capisco benissimo. Ha paura, e la mamma lo sa. Le urla contro, le lancia le ciabatte, ma sento quando le dice “Stai tranquilla, ci sono qua io.”
Così sono diventata tutta rossa, sono corsa fuori dall’aula e sono andata a chiudermi in bagno. È stata la prof a venirmi a cercare. Allora le ho raccontato tutto, e l’ora dopo non sono nemmeno rientrata in classe, e lei è stata così comprensiva che ho pensato che forse era un bene che quelle parole mi erano uscite di bocca.
L’idea è venuta poi a tutte e due, quasi insieme. L’ha detta lei, il giorno dopo, ma ci avevo pensato anch’io la sera prima.
“E se il presepe vivente lo facessimo proprio a casa tua?” ha suggerito lei.
“Nel mio palazzo,” ho aggiunto io. “Magari lungo le scale. Io sto al quarto piano. E a ogni piano, salendo, mettiamo un banchetto, qualcosa.”
“La trovo un’idea meravigliosa, Chiara. Ci possiamo lavorare tutti, ma tu te la senti di coinvolgere i tuoi vicini di casa?”
Era questo il punto dolente: suonare ai vicini e chiedere loro di partecipare. È un progetto della scuola sul Natale: lo vuole fare con noi un presepe sulle scale? Temevo non avrebbero accettato. Mica tutti credono al Natale, e poi al terzo piano c’era la famiglia di Aziz: sua madre ha il velo, come l’avrebbe presa? Ma soprattutto non sapevo da che parte cominciare a chiederlo alla mia, di madre. Ero sicura che non me lo avrebbe permesso. Mi avrebbe staccato la testa, piuttosto.
Però l’idea mi piaceva: portare dei doni al bambino, dire a tutti che in casa c’era una nuova creatura, liberare mia madre del peso di doverlo annunciare. E far capire a mia sorella che mi andava bene così, e che non era vero che era la figlia sbagliata, come le aveva urlato una sera mia madre.
Così ho pensato che sarebbe venuta bene, come sorpresa. Alla prof ho detto che era tutto a posto, che mia madre si era convinta. Lei mi ha creduto, o si è tenuta il dubbio per sé e ha lasciato che corressi questo rischio.
Ora che manca poco ho paura, ma intanto ci siamo. Mattia è nato il venti, mia sorella è tornata a casa ieri, oggi è la vigilia e alle tre scatta il piano. Appena in tempo.
Il piccolo è bellissimo, dicono che mi assomiglia; mia sorella è provata, ma ha una luce negli occhi che finora non le avevo mai visto. Deve essere il modo in cui se lo guarda.
Sono le due. Scendo con la scusa di andare a giocare da Andrea. Insieme invece facciamo il giro per vedere se tutti sono pronti. Hanno accettato solo poche famiglie, ma va bene lo stesso. Sul pianerottolo del primo piano c’è un tavolino con dei pacchetti regalo. La madre di Andrea sa fare degli origami bellissimi e al secondo piano ne ha riempito un banchetto. Quando salgo al terzo mi aspetto si apra solo la porta dei Pozzi. Invece Aziz è sulla soglia con in mano un vassoio. Sua madre dietro di lui mi fa un cenno col capo come a dire è importante, ci siamo anche noi. Mi aveva detto di no, la porta appena scostata, diffidente e spiazzata da quella richiesta un po’ stravagante. Adesso aiuta Aziz a piazzare i biscotti su una tovaglia di lino. Balbetto un grazie, mi restituisce un inchino. Poi scendo di corsa le scale e aspetto fuori, il cuore in gola.
I miei compagni sono già arrivati: sono quelli del laboratorio di teatro, una decina in tutto. La prof è con loro. Hanno recuperato dei costumi di scena e dovrebbero sembrare dei pastori. Fuori fanno una gran confusione, ma sulle scale scende uno strano silenzio. Saliamo piano, ognuno prende dai banchetti qualcosa e arriviamo in cima che tremo. La prof mi prende la mano e mentre suono il campanello la stringe.
“Chi è?” si sente urlare.
“Sono io, mamma,” rispondo.
Quando apre quasi nemmeno li vede. Poi si gira di scatto, mette a fuoco la scena, vede me, la mia prof e un gruppetto di ragazzini malamente agghindati. Arretra d’istinto, urla “no” e richiude forte la porta.
La sento piangere, oltre il battente. Un singhiozzo soffocato da tanto, che adesso esce e non le va di mostrare. Ho gli occhi lucidi anch’io, ma non ho più paura. So che fra un attimo apre. Il tempo denso in cui affonda l’attesa cancella ogni suono che non arrivi da dentro. Dei passi, un tocco, fruscio di stoffa, forse un fazzoletto al naso che cola. Poi la sento chiamare mio padre: “Nicola, vieni a vedere.”
Gira la chiave e respira. Quando ricompare, sono lì tutti e due, gli occhi gonfi e l’impaccio di non essere pronti a ciò che sta per accadere.
“È qui che è nato un bambino?” chiedo entrando.
Mia sorella è in sala, col piccolo in braccio, e stenta a capire. Sente “permesso” con dieci voci diverse. Poi i regali, i biscotti, fiori e rane di carta, il mondo chiuso fuori per mesi che si affaccia di colpo e la viene a cercare. Mi guarda e scuote la testa, poi allarga un sorriso.
Io cerco con gli occhi la prof, lei si lascia trovare. “Il Natale,” mi ha sussurrato a un orecchio poco fa sulle scale, “è una porta che finalmente si apre.”