di Laurenzo Ticca
Nacque ad Ales, in Sardegna, fu ucciso dal carcere fascista. Soffrì la solitudine e l’isolamento politico. Rispose all’angoscia e alle privazioni lasciando un testamento intellettuale che ancor oggi é patrimonio della sinistra e della cultura italiana.
Antonio Gramsci vide la luce il 22 gennaio del 1881 in un piccolo paese, una manciata di case vicino ad Oristano. A 18 mesi gli fu diagnosticato il morbo di Pott , una deformazione della colonna vertebrale che lo avrebbe afflitto per tutta la vita. Nel 1911 arrivò a Torino. Aveva 100 lire in tasca. Sarebbero servite per concorrere ad una borsa di studio. Anni duri, segnati dalla povertà, dall’indigenza e dall’incontro con il Partito socialista e, soprattutto, con la classe operaia. Poi, nel 1921, la scissione di Livorno e la nascita del PCd’I (il Partito Comunista d’Italia). Sarebbe diventato un grande dirigente rivoluzionario. Storia nota.
Meno noto forse è il lato umano di Gramsci, quella miscela di durezza, di intransigenza morale e di dolcezza che ne fece una figura che ancor oggi impressiona e commuove. L’8 novembre del ’26, benché protetto dalla immunità parlamentare fu arrestato e trasferito in carcere. Durante il processo il Pubblico ministero pronunciò una requisitoria violenta conclusasi con una frase celebre: “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare“. Non ci riuscirono.
In carcere Gramsci studiò, scrisse i ” Quaderni del carcere”, “Le lettere dal carcere” e molto altro. Non fu piegato né dalla durezza della detenzione, né dall’angoscia, né dai sospetti. Temeva che la moglie Giulia lo avesse messo da parte, sospettava che il partito non fosse interessato alla sua liberazione anzi, la ostacolasse deliberatamente. In carcere Gramsci aveva elaborato una profonda revisione del bolscevismo e, in quegli anni di ferro e di fuoco all’ esterno, tra i suoi compagni e a Mosca, ciò era inaccettabile. Una condizione umana e politica ,dunque, quella di Antonio , insopportabile, aggravata dalle malattie.
La dolcezza, si diceva. In queste condizioni trovò anche la forza per tradurre le fiabe del fratelli Grimm. Voleva che i figli Delio e Giuliano e i nipoti le leggessero. Aveva un insopprimibile intento pedagogico che traspare dalle lettere inviate ai suoi cari. Il 4 giugno del 1928 Gramsci fu condannato a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di reclusione. Quando il 24 agosto del 1935 fu accolta l’istanza di liberazione condizionale le sue condizioni di salute erano disperate: al morbo di Pott si erano affiancate, la Tbc polmonare, l’ ipertensione e crisi anginoidi . Si sarebbe spento il 27 aprile del ’37.
L’umanità dell’inflessibile “rivoluzionario di professione” traspare dalle sue lettere ai familiari. Il 10 maggio del 1928 poco prima del processo aveva scritto alla madre: ” Vorrei, per essere proprio tranquillo, che tu non ti spaventassi o ti turbassi troppo qualunque condanna stiano per darmi… La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme , se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini”.
Patrimonio della sinistra che deve studiarlo meglio per tornare a incidere nella vita del paese.