Il teatro surreale di Pinter al Binario7

di Elena Borravicchio

Venerdì sera, al Teatro Binario7 di Monza, per la rassegna “L’Altro Binario”, la produzione Teatro d’Emergenza ha proposto lo spettacolo “Il Calapranzi” di Harold Pinter.

L’opera del 1957, andata in scena per la prima volta al Hampstead Theatre di Londra nel 1960, ha avuto vari allestimenti, dai più scarni ai più generosi. Quello scelto dalla regia di Luca Spadaro aiuta a immedesimarsi nella situazione. Due letti sfatti, un giornale, un tè da preparare. Due personaggi, eleganti e nervosi, in uno stato “sospeso”. Ogni tanto si guardano e poi tornano alle loro occupazioni, la lettura ossessiva del giornale per Ben (Massimiliano Zampetti), il girovagare agitato, litigando prima con le scarpe, poi con la coperta sulle spalle, per Gus (Sebastiano Bottari).

Non si capisce che cosa aspettino i due, che cosa li preoccupi. Ben, il “socio anziano”, è apparentemente quello con maggiore self control, il più compreso nella parte: conosce il suo lavoro, anzi il loro lavoro, e si appresta ad aspettare la chiamata ad agire, come al solito. Salvo ogni tanto esplodere in reazioni allibite per quanto legge sul giornale. Gus invece lo incalza con domande che faticano ad emergere, eppure premono sotto la superficie della conversazione: “È da tanto che ci penso… Volevo proprio chiederti una cosa…”.

Piano piano, nel procedere surreale del dialogo, che salta da aspetti pratici e contingenti, come il gas che non funziona e lo scarico del water, a domande di senso sui fatti di cronaca riportati sul quotidiano, scopriamo che i due sono killer professionisti, assoldati dal signor Wilson, per eliminare a sangue freddo la persona che di volta in volta viene loro indicata. I sicari si preparano, vestono un completo di tutto punto, una fondina con la pistola e, non appena la vittima entra nella stanza, sparano e se ne vanno.

Ma questa volta la chiamata tarda ad arrivare. In più, strani rumori li colgono di sorpresa e li spaventano.

La curata regia dei suoni sottolinea il funzionamento cigolante di un vecchio “calapranzi”, che non avevamo notato perché nascosto dal portaabiti di Gus, nel quale compaiono bizzarre ordinazioni di pietanze. I due si dicono che quello doveva esser stato un bar, forse un ristorante. “Però non è possibile! Hai visto la cucina Ben? Ha solo tre fuochi!”.

Inizia uno scambio ancora più surreale, comico a tratti, tra i due protagonisti che mandano su tutto ciò che hanno: patatine, mezzo litro di latte, biscotti e gli ipotetici attendenti che mandano gli ordini da sopra.

Infine arriva improvvisa la chiamata: è ora. Ma nella crescente agitazione si verifica un fatto totalmente imprevisto: dalla porta della stanza entra proprio Gus.

Uno spettacolo che fa riflettere sulle nevrosi degli esseri umani, siano essi killer o persone con un lavoro socialmente accettabile. Il sottotitolo dell’opera: “ovvero lo stupido che aspetta” suggerisce che negli stati di attesa che viviamo, la domanda di senso a volte è schivata a favore di un protocollo che ben conosciamo ma, repressa, genera stati d’ansia che rischiano di farci dare di matto.

 

 

 

 

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