di Enzo Biffi
Quella mattina di prima primavera di qualche anno fa, la buona scusa per un giro in moto me la fornì il Museo d’arte contemporanea di Lugano con una mostra retrospettiva di Jean-Michel Basquiat.
Non essendo propriamente un’artista a me gradito, più che l’idea della mostra mi allettava la suggestione del percorso fra i due laghi dove far scivolare la mia moto.
Giunto quindi al museo e pagato il biglietto, entrai con l’intenzione di liquidare un’incombenza, quasi una formalità da sbrigare per giustificare la gita e la doverosa sosta.
Il mondo artistico in cui passò la meteora di vita e arte di Basquiat, non è mai stato molto affine alla mia sensibilità artistica. Quella macedonia di talento e businnes, mondanità e cultura, artisti geniali e aspiranti tali che fu la “Factory” di Warhol, re indiscusso di tutto questo, nonché talent scuot di Jean Michael, non mi ha mai appassionato.
Tutto troppo “americano”, quell’istinto disordinato posto contro l’ordine classico della mia formazione che viaggiava verso altre vie che non quelle del così detto “pop”.
Detto questo, in quella giornata di primavera, e come spesso mi accade, dovetti ricredermi non appena entrato nella prima sala. Enormi tele ricolme di simboli e colori mi inghiottirono tutto d’un fiato con le loro figure infantili, parole scritte e cancellate, facce enormi. Senza alcuna accademia o tecnica apparente ma con la sola potenza narrativa di un vulcano che erutta immagini, il tutto disegnato, tracciato e dipinto con una tale urgenza, una tale forza che rendeva obbligatorio il mio ripensamento.
Gli artisti inventano un mondo e quando non lo fanno, assorbono tutto quello attorno al loro ce lo restituiscono filtrato dalla loro poetica. Nelle opere di Jean-Michel Basquiat c’è davvero tutta la sua vita, complicata, soffrente, spaventosa, curiosa, irrequieta e c’è, soprattutto, la libertà espressiva prerogativa dei grandi artisti.
Disegni e colori in libertà siano essi su tele o muri di città, stanno lì a raccontarci che inevitabilmente da qualche parte dovevano stare oltre che dentro la testa di Basquiat.
Quando dentro un artista si generano così tante visioni, altro non resta che lasciarle uscire. Vada come vada, siano colori, suoni o parole, presto o tardi dal nostro troppo piccolo corpo fisico debbono tracimare.
La vita di Basquiat fu breve e complicata come quella di molti suoi compagni di avventura di quegli anni ottanta i cui contemporanei scoprirono, a proprio discapito, il prezzo della leggerezza e della trasgressione.
Quella necessità, quel grido, quella bulimia di simboli graffiati veloci hanno però superato la vana gloria, il denaro e i party, sopravvivendo anche a quel mondo, grazie al potere sciamanico che sa avere qualche volta l’arte.
A questo pensavo, tornando verso casa, mentre dalla moto non vedevo più lo stesso ordinato paesaggio ma moltitudini di facce, colori, occhi e parole, prima scritte e poi cancellate, fino a creare un disordine sublime.