di Francesca Radaelli
Come “essere insieme” in tempi di intelligenze artificiali? È lo stimolo con cui si è aperto, lo scorso lunedì 27 gennaio, il percorso di formazione promosso da Caritas Monza per l’inizio del 2025, con il titolo “Alla ricerca della felicità”. In programma un calendario di cinque incontri serali fissati, come ormai da tradizione, l’ultimo lunedì dei prossimi mesi presso la biblioteca del Carrobiolo di Monza.
Don Augusto Panzeri ha voluto alzare il sipario sull’intero ciclo di incontri con la lettura del discorso delle beatitudini dal Vangelo di Matteo. “Gesù”, ha commentato, “non ha fatto un discorso sulla felicità, ma ha parlato di persone che sono beate, cioè “contente”. Ma noi siamo un po’ contenti della nostra vita?”. E la domanda sulla felicità si riproporrà, secondo angolazioni diverse, nel corso di ognuno degli incontri del percorso formativo.

Un tema stravagante?
Se il tema della felicità risulta inconsueto per una realtà come la Caritas che solitamente si occupa di impegno sociale ed è abituata a focalizzare l’attenzione soprattutto sui disagi o le disuguaglianze, Fabrizio Annaro introducendo l’incontro ha invitato a cambiare prospettiva: “E’ difficile parlare di felicità quando tante cose che vediamo nel mondo ci inquietano, ma la sfida è provare a costruire, dialogando insieme, quella beatitudine di cui parla Gesù nel Vangelo”.
Comunicazione e media, secondo Carlo Maria Martini
“Essere insieme” è il tema trattato durante la serata, che ha visto come ospite Simona Ferrari, pedagogista dell’Università Cattolica e coordinatrice del Cremit (Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Innovazione e alla Tecnologia), fondato nel 2004 dal prof. PierCesare Rovoltella come progetto pionieristico nell’ambito della “media education”.
Il filo conduttore di tutti gli incontri è il pensiero di Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano dal 1979 al 2002. E il tema della serata viene introdotto da Mino Spreafico, pedagogista dell’università Cattolica di Milano, proprio a partire da due lettere pastorali del cardinal Martini, “Effatà” e “Il lembo del mantello”, scritte all’inizio degli anni Novanta. Di fronte alla questione dei mezzi di comunicazione, Martini rifletteva sulla difficoltà di comunicare davvero ciò che si sente dentro di sè e sulla confusione dei linguaggi che impedisce la comprensione reciproca, rappresentata nella Bibbia da Babele.

“In questo testo c’è un registro teologico e uno legato alle scienze umane”, ha spiegato Mino Spreafico. “Il primo è rappresentato nell’Antico Testamento da Dio che parla, dai suoi silenzi, dallo scrivere sulla pietra, e poi dalla parola del Vangelo, da Gesù, un “comunicatore”. Il secondo è il percorso di avvicinamento al tema della comunicazione che passa attraverso l’educazione delle persone”.
Martini si chiede come trovare nella Babele di oggi una comunicazione vera e autentica. Il tema della comunicazione, spiega Spreafico, si pone però al culmine di un vero e proprio percorso educativo, che aveva caratterizzato le lettere precedenti. Martini si sofferma sulla necessità di recuperare la capacità di comunicare il Vangelo. Riflette sulla tentazione della comunicazione, cioè “il controllo dell’altro”. Ma anche su “una folla di solitudini che chiedono di essere risanate”. Per il risanamento dei blocchi comunicativi non serve una via astrusa, pedante e difficile: “Leggete quello che volete”, scrive Martini, “perché il controllo della comunicazione è la bramosia di possedere l’altro”. Ma anche: “L’uomo è fatto per comunicare e per amare. Questo desiderio penetra in tutte le nostre relazioni”. E poi esprime la convinzione che, anche attraverso i mass media, ci possa essere una comunicazione umanizzante e addirittura salvifica, capace di aprire veri canali comunicativi tra uomini, tra Chiesa e società, tra gli uomini e il mistero divino. “Si può stabilire un rapporto tra il mio televisore e il lembo del mantello di Gesù”, afferma Martini.
La domanda se sia possibile comunicare nel mondo, evitando la soluzione di Babele di un’unica lingua per tutti resta aperta ancora oggi, in cui la comunicazione di televisione e radio viene progressivamente soppiantate dall’universo digitale.
Le preoccupazioni di oggi: social network, semplificazione, omologazione
A questo punto la parola passa al pubblico, chiamato a esprimere riflessioni e domande prima dell’intervento dell’ospite della serata.
Gli interventi riguardano soprattutto la comunicazione superficiale dei social network, che tende a omologare, a semplificare i problemi, a perseguire il “pensiero veloce”, ma anche la necessità dell’ascolto “plurale”, di uscire dalla propria “bolla”, e poi l’importanza del commuoversi e di una comunicazione che passi anche attraverso il canale emotivo.
Chiamata a rispondere queste sollecitazioni, prende quindi la parola Simona Ferrari.
Intelligenza artificiale e polarizzazione
“Con il digitale tutto diventa orizzontale”, esordisce Simona Ferrari. “Martini era un grande comunicatore, usava nel modo migliore gli strumenti di comunicazione che erano a sua disposizione: la radio, ma anche le lettere, prestando grande attenzione alle risposte che riceveva”.
Perché oggi siamo in presenza di una polarizzazione? Perché scompaiono i punti di vista intermedi?
“Usiamo uno strumento, il digitale, e l’intelligenza artificiale ad esso connessa, che analizza i dati presenti in rete in base alla loro quantità e ce li restituisce. Quindi è basata sulla quantità di dati. Se la prevalenza e “bianco o nero” quelli sono i dati che propone. Questo strumento tratta anche noi come se fossimo dei dati: cosa facciamo quando andiamo in rete, cosa ci interessa. In modo sempre più veloce riesce a “profilare”. Quindi risponde a me lasciandomi dentro la mia bolla: le mie ricerche in rete si conformeranno a ciò che già sono. Processa i dati in modo veloce”.

Semplificazione e rapidità
Secondo Simona Ferrari è necessario oggi conoscere l’intelligenza artificiale così come, secondo Martini, dovevamo conoscere la televisione. “Martini oggi direbbe che dobbiamo conoscere il dispositivo mediale dell’intelligenza artificiale, altrimenti continuiamo ad alimentarla nel suo proporci una bolla o una realtà fatta di bianco o nero.
Per riuscire ad essere veloce e estrarre così tanti dati di fatto l’intelligenza artificiale semplifica, procede per sintesi, fa una fotografia veloce, richiedendoci una velocità di risposta, stando dentro le nostre bolle informative, di consumo e di acquisto: il modo in cui sto in rete mi viene restituito.
Perché conoscere l’intelligenza artificiale
Ci si può chiedere se l’intelligenza artificiale sia uno strumento utile. “Sicuramente oggi esserne fuori comporta non riuscire a stare al passo con la società attuale”, sottolinea Simona Ferrari. “La logica educativa è sempre stata una logica dove non c’è la contrapposizione “o..o”, ma una logica “e…e”. Vogliamo costruire un uomo che conosca il digitale, lo sappia usare per stare dentro a una comunicazione a misura d’uomo dove la relazionalità ha un ruolo importante”.
“Non ci sono più le visioni intermedie, perché anche noi semplifichiamo, andiamo di fretta”, spiega la pedagogista. “L’educazione invece è sempre stata uno strumento che l’uomo ha di resistenza a certe cose. La resistenza si dimostra nel fatto di aprire alla diversità, alla sfumatura. Come? Stando in ascolto, portando dentro il punto di vista di altri che non hanno la parola o il linguaggio per stare all’interno”.

Non solo. Oggi i media digitali sono assolutamente trasparenti: non ci accorgiamo più della loro presenza. “Ci accorgiamo della loro importanza solo quando non ci sono”, riflette Simona Ferrari. “Mi accorgo di quanto sia importante il cellulare solo quando non ce l’ho più. Non ho bisogno di imparare il linguaggio alla base della programmazione, perché tutto è intuitivo”.
Ecco un altro tema che deve essere portato all’attenzione dal punto di vista dell’educazione: “Velocità, dati sommativi, accelerazione, trasparenza sono tipici di una comunicazione digitale orizzontale. E l’umano cosa dice? Se non imparo a usare questi strumenti comunicativi resto fuori da questa società che ormai è multischermo. Dobbiamo invece imparare a utilizzarli, aggiungendo però la logica dell’umano, che è una logica basata sulla narrazione. La narrazione è data dai contenuti, ciò che ho da dire, e da una struttura in cui io incontro l’altro, mi metto in collegamento. Un collegamento che può essere leggero o profondo, a seconda di come lo si utilizza”.
Il tempo, tra memoria e futuro
La narrazione chiede tempo, la risorsa più preziosa di oggi. Per entrare in relazione, l’ascolto dell’altro chiede tempo. La logica della narrazione descrive un percorso, non è incentrato sul qui ed ora, ma sul recuperare il passato e sul futuro. Recuperare il passato significa memoria.
Proprio il cellulare è un potente strumento della nostra memoria: permette di conservare foto e testi che sono le testimonianze del nostro passato. “Se non avessimo l’intelligenza artificiale faremmo fatica a trovare ciò che stavamo cercando nella nostra memoria. Il problema che pone la società complessa di oggi sono però le domande del futuro”.
E sulla comunicazione emotiva: “La parte emotiva ci aiuta a scegliere il nostro racconto. I nostri ragazzi sono sempre più analfabeti emotivi non hanno le parole che permettono di descrivere ciò che provano. E se l’emozione non viene descritta con le parole non è un’emozione pensata e messa in forma ma è di pancia. Bisogna educare alle emozioni, al riconoscimento emotivo, a dare le parole. Bisogna riconoscere gli spazi digitali dentro cui il soggetto costruisce la sua identità, delle relazioni. Se diciamo che quella relazione non è reale, non facciamo il suo bene, per lui è una relazione. Quella digitale è una relazione più facile, leggera, anche per noi adulti”.
Educare all’informazione digitale
Questo ci porta al tema dell’educazione all’informazione oggi. “Come nel passato, le domande sono le stesse. L’ia non ci pone le domande, ci dà solo delle risposte. Per ogni bisogno c’è un’app che risponde. Che prezzo paghiamo per questa facilità e velocità? Non mi pongo neanche il problema di analizzare i miei bisogni. Tanto si chiudono subito, in fretta. In secondo luogo, se qualcun altro mi risolve tutti i bisogni io divento passivo. Allo stesso modo la televisione ci rendeva spettatori passivi del mondo. Questa passività è il problema, l’idea che il problema me lo debba risolvere un altro”.
Il ruolo educativo degli adulti invece è proprio quello di aiutare a porre domande generative, che creano la narrazione. “Non quelle con una risposta vero/falso, ma quelle che aprono, che consentono di esplorare”.

Prima domanda: cosa c’è dietro quell’app, quel telegiornale? “Bisogna svelare quali sono le logiche di mercato oggi. Per esempio, cosa significa “gratuità” del digitale? Non che non lo pago, poiché lo pago con i miei dati. Oppure ciò che io non pago lo paga qualcun altro”.
Altra domanda: che cosa succede al tuo tempo? “Un tempo di pensiero veloce, che ci deve essere per prendere delle decisioni, ma accanto ci deve essere un pensiero lento. L’educazione è lenta. Anche noi adulti ci sentiamo oppressi dalla velocità, trascuriamo il tempo lento. Quel tempo in cui tu usi lo strumento digitale ti fa male o bene?”
Poi la domanda sullo spazio: “Dove consumi il digitale, con quale postura? Da solo o in gruppo? Sdraiato o in atteggiamento di lavoro? In isolamento o in condivisione?”
Quindi, i contenuti: “Di quali contenuti fruiamo? Che effetto hanno su di noi?”
Infine, la relazione: “Le tecnologie digitali sono strumenti che mi mettono in relazione, ma in relazioni leggere. Quella leggerezza serve o non serve? Soprattutto la qualità della relazione è un tema importante”.
I social fanno la felicità?
Siamo felici sui social?, chiede infine Simona Ferrari.
“Dipende”, è la sua risposta. “Per qualcuno sono uno spazio in cui esprimersi, in cui trovare relazioni che altrove non si riesce ad avere. Qualcuno vi può trovare uno spazio di espressione. Di fronte a fenomeni di isolamento sociale, ragazzini che si ritirano e non riescono ad andare a scuola, non riescono a reggere la relazione. Il digitale può essere un modo per riagganciare questi ragazzini, attraverso relazioni “leggere” che possano essere un “allenamento”. Con la lentezza del processo educativo possono così essere riportati alle altre relazioni. Il digitale in questo caso li aiuta. Il problema è piuttosto perché ci sia sempre più gente che non regge la fatica della relazione. Vuol dire che non si è felici. Il media amplifica tutto questo, ma è anche un’opportunità per entrare nelle relazioni”.
Come definire la felicità? Per Simona Ferrari è necessario “riflettere sulle emozioni che ti hanno reso felice. Non tanto quelle legate a qualcosa che riesco ad avere, che di solito dà una felicità breve. Siamo contenti di solito quando ci sentiamo capaci, riusciamo a fare cose che non ci aspettavamo. Di solito è perché c’è il riconoscimento di un altro che mi dice “ci sei riuscito”. Questo per ora l’intelligenza artificiale non riesce a darcelo”.
In effetti, come sottolinea la professoressa, l’empatia è qualcosa che il digitale ancora non può offrire. “Non ci allena all’empatia, solo l’altro lo può fare. Soprattutto attraverso i piccoli gesti, quelli in cui l’altro mi accoglie, e che restano nella memoria”.
Anche nel mondo digitale un cristiano può esercitare le sette virtù? “Certo che sì”, risponde Simona Ferrari. “Bisogna interrogarsi sul come farlo all’interno di questi strumenti. Ad esempio, curare la gentilezza, il modo di porsi, pur nella fermezza delle proprie convinzioni. Il modo gentile accompagnato da un contenuto profondo genera ascolto”.
La sfida per gli adulti
Un ulteriore invito alla riflessione riguarda l’avvicinamento tra adulti e giovani prodotto dall’uso degli strumenti digitali. “Ai tempi di televisione e radio c’era un modo di guardare adulto e un modo di guardare del giovane”, ricorda Simona Ferrari. “Oggi i nostri comportamenti online si modellizzano in modo da avvicinarci sempre più. Questo ci interroga: possiamo abitare questo ambiente digitale in modo adulto? Un tema fondamentale in questo senso è il ruolo della regola. Le regole servono per farci star bene insieme. La regola non come “legge”, ma processo che ci aiuta nella convivenza”. La dimensione sociale è ben presente anche in ambito digitale e ci porta a stare con l’altro, la domanda generativa, da stimolare nei giovani, è quella sulle conseguenze del proprio comportamento. “Bisognerebbe spingere a chiedersi: a chi fa bene? a chi fa male?”
Costruire comunità
L’ultima sfida è quella a pensare con gli altri. “Le tecnologie digitali possono consentire di costruire delle comunità”, sottolinea Simona Ferrari. “Il digitale deve essere affrontato da adulti, attraverso una comunità adulta. Se ci isoliamo nella nostra piccola famiglia, o ripiegati su noi stessi, non vinciamo questa sfida. Riporto un’esperienza personale: ho resistito nel permettere a mia figlia di usare il cellulare fino alle scuole superiori. Quando lo hanno saputo, altre mamme mi hanno detto che l’avrebbero fatto anche loro, ma avevano sempre creduto a ciò che dicevano loro i figli, cioè che gli altri ragazzi avessero tutti il cellulare”.
Insomma, come sintetizza in chiusura anche Fabrizio Annaro, per vincere le sfide educative del digitale ci vuole un’alleanza tra adulti.