Interviste virali: siamo medici, non eroi

Visto che i supereroi indossano la maschera, perchè noi non dovremmo indossare la mascherina?  Per sconfiggere il temutissimo Covid-19 alleiamoci a distanza e usiamo tutti la mascherina. Lo ha ribadito alla redazione di Radio Stella- Scaccomatto la dott.ssa Rita Passaretta, medico anestesista-rianimatore, nel secondo appuntamento delle “Interviste Virali”,  Ecco l’intervista.

1. Le piace la definizione di “eroi” che vi è stata data dalla gente?

Sia io sia tutti i miei colleghi non ci siamo sentiti eroi, ci siamo trovati ad affrontare quello che il nostro lavoro ci richiede tutti i giorni. Era una situazione assolutamente particolare, irripetibile, e che abbiamo dovuto necessariamente affrontare. È vero, è stato molto difficile e non eravamo neanche pronti, però l’abbiamo sostenuta in modo coeso: tutto il personale sanitario ha dimostrato che, nel momento del bisogno, era unito e c’era. Era il senso del dovere, era il nostro lavoro, non potevamo tirarci indietro.

2. Quando si parlava di Cina che percezione ha avuto rispetto al rischio che il virus arrivasse in Italia e che l’influenza diventasse una pandemia?

Quando se ne parlava al telegiornale non avevamo l’impressione che potesse diventare un pericolo reale ed è il motivo per cui siamo stati investiti così violentemente. È stato improvviso, di una potenza incredibile e nel giro di una settimana ha sconvolto tutto il Sistema Sanitario Nazionale. Eravamo osservatori a distanza, poi, quando ci ha colpiti, ci ha veramente travolti. Ci siamo trovati impreparati perché era qualcosa che non conoscevamo e contro cui non avevamo alcuna arma. Fondamentale è stata la comunione tra gli operatori sanitari.

3. Qual è stato il momento in cui ha avuto paura e come ha gestito lo stress? Chi le ha dato il supporto e il sostegno per affrontare questo periodo?

Ho avuto paura quando mi rendevo conto che i malati, nonostante le nostre cure, non miglioravano, anzi molti peggioravano. Quotidianamente tantissime persone si ammalavano e ci trovavamo a curarne anche 60-70 al giorno. Poi, quando sai che potresti ammalarti anche tu… allora hai veramente paura. C’è uno strumento che si chiama “scafandro” e quando lo sistemavamo al paziente, sentivamo uscire flussi di aria (perché sono flussi di aria altissima) che ci investivano. Lì sapevamo che c’era il virus e non era una sensazione per niente piacevole perché eravamo consapevoli che rischiavamo di essere infettati. C’era soprattutto il timore di portarlo a casa. Io, ad esempio, ho due bambini piccoli e l’idea di far ammalare i miei figli, insieme a mio marito e ai miei genitori è qualcosa che spaventava davvero molto.
Per quanto riguarda la gestione dello stress, negli ospedali sono stati creati punti di ascolto anche con l’aiuto di alcuni psicologi. Io non ne ho preso parte. Di notte difficilmente riuscivo a dormire e questo capitava anche ad altri colleghi. Il tragitto da casa all’ospedale lo facevamo piangendo perché sapevamo che non avremmo potuto aiutare molti pazienti, nonostante tutto il nostro impegno. Era un modo per scaricare, forse in anticipo, lo stress. Posso assicurare che in ospedale era un inferno.

4. Ha ricoperto un ruolo più ampio rispetto al solito a causa del fatto che i pazienti non potevano ricevere le visite dei familiari?

È vero, i pazienti non potevano ricevere le visite dei parenti perché – naturalmente a causa della situazione infettiva – i reparti erano inaccessibili, se non con tutta una serie di protezioni. Tuttavia sono stati accuditi umanamente da tutto il personale sanitario: ci rendevamo conto di questa situazione e gli eravamo vicini. Poi sono comparsi dei tablet e, con chi stava un pochino meglio, riuscivamo a fare collegamenti via Skype con la famiglia. C’erano degli infermieri che avevano il ruolo di far comunicare i parenti coi pazienti; inoltre ci sono stati dei medici molto bravi (parlo di quello che è accaduto nella mia realtà) che, rientrati dal pensionamento, si sono offerti come volontari per telefonare alle famiglie e dare informazioni sui loro cari. Per cui, nonostante la mancanza importante dei parenti, i pazienti sono stati comunque tutelati.

5. Il suo pensiero quando ha visto assembramenti sui Navigli o nelle piazze per fare l’aperitivo?

Non ho pensato: “Oddio, chissà come andrà?!”. L’importante è il rispetto delle norme: la mascherina e il distanziamento sociale. È fondamentale, a mio avviso, perché fino a prova contraria questo è un virus respiratorio.

6. Che effetto le ha fatto vedere medici di altri Paesi venire in nostro aiuto?

Mi ha fatto un ottimo effetto perché eravamo veramente in difficoltà. Molti medici si sono ammalati e molti sono deceduti, per cui vedere che qualcuno mette a rischio la propria vita è stato emozionante. Siamo grati per l’aiuto che ci è stato offerto e sono convinta che se venisse chiesto ai medici italiani di fare lo stesso, andrebbero a dare una mano. Anche perché – devo dire – abbiamo una certa esperienza.

7. Com’è cambiata la visione del suo lavoro: esiste un prima e un dopo Coronavirus? E, in questo periodo, cosa l’ha gratificata e cosa l’ha sconfortata?

C’è sicuramente un pre e un post. Fortunatamente il mio lavoro sta tornando piano piano alla normalità e ognuno di noi ha bisogno di lasciarsi tutto alle spalle. Credo che, passata questa tempesta, riprenderemo a fare quello che facevamo prima. Ci portiamo dentro una grande esperienza, una grande prova che, però, spero rimarrà una parentesi, quasi un brutto ricordo.
Cosa mi ha gratificata? Riuscire a curare i pazienti, la gratificazione la davano loro. Quando qualcuno migliorava, era come se a stare meglio fosse un parente. Anche perché – al contrario di ciò che si diceva – il virus ha colpito tutte le fasce d’età e noi abbiamo avuto tantissimi pazienti giovani.
Cosa, invece, mi ha sconfortava? L’inizio. All’inizio effettivamente eravamo in difficoltà.

8. Quali i punti di forza e quali di debolezza che sono emersi nella sanità italiana?

È una domanda a cui è difficile rispondere. Io penso che questa sia stata una situazione veramente imprevedibile, per cui ci siamo trovati ad affrontare una questione di una gravità nuova. All’inizio eravamo impreparati anche per quanto riguarda la fornitura dei dispositivi medici di protezione individuale. In realtà, poi, piano piano sono arrivati e io fortunatamente devo dire che mai sono rimasta senza.
Sicuramente ci sono stati degli errori, però è facile vederli dopo, quando tutto è passato. Tuttavia, nel mentre accadeva il tutto, io credo che il Sistema Sanitario Nazionale abbia reagito in maniera corretta. Per fare qualche esempio, nell’ospedale in cui lavoro io – ma so che è successo anche in altri – in un weekend abbiamo triplicato i posti di terapia intensiva… quasi un miracolo, qualcosa di impensabile. Abbiamo avuto ortopedici che si sono messi a fare gli pneumologi, e non è una cosa da tutti! La reazione è stata bella e importante. Certo, molte cose a posteriori si potrebbero rivedere e correggere, però io mi sento di dire che sono state una conseguenza della situazione.

9. Se se la sente di rispondere… Se si fosse trovata in un ruolo tecnico istituzionale, c’è qualcosa che avrebbe affrontato in modo diverso?

L’unica cosa che mi sento di dire è che quando ha iniziato a diffondersi il virus sarebbe stato – da subito – necessario l’obbligo delle mascherine. E doveva essere fatto per tutti. Però penso anche che non si potesse nemmeno fare perché effettivamente all’inizio le mascherine non c’erano, era impossibile trovarle per tutta la popolazione. Sono convinta che se questa precauzione fosse stata presa subito, il numero di vittime sarebbe stato enormemente inferiore. Sul resto, francamente, è stato uno vero tsunami: è accaduto tutto in poco tempo per cui si reagiva in base a quello che succedeva man mano.

10. Secondo lei, adesso, in Italia la Sanità resterà stabilmente una priorità assoluta o, man mano, se non ci saranno più problemi, tornerà un po’ come prima?

Credo, anzi spero, che alla luce di quanto accaduto la Regione inizi a mettere dei punti fermi su alcune situazioni. Lavorando in un’azienda pubblica, però penso che tutto sommato ci sia stata una risposta importante da parte del Sistema Sanitario Nazionale: ci si è adoperati per fare il meglio e si è cercato immediatamente di creare reparti Covid. Sicuramente la Sanità deve essere una priorità, bisogna investire di più perché ci sono delle carenze di personale negli ospedali pubblici. Però in questa situazione di emergenza ci siamo resi conto che il nostro sistema, essendo pubblico, ha funzionato meglio di quello di altri Paesi.

11. Abbiamo sentito storie di medici che per via dell’emergenza hanno dovuto scegliere chi curare: è qualcosa che poteva accadere anche nell’epoca pre-Covid?

È sicuramente accaduto più spesso, questo è vero, avendo delle disponibilità limitate e degenze molto, molto lunghe. Noi abbiamo avuto malati che sono stati ricoverati per alcuni mesi. Non c’erano tanti posti, c’erano più pazienti e si valutava di dare priorità – è brutto dirlo così – a chi aveva più probabilità di sopravvivere. Questo è il concetto del triage che, purtroppo, si pratica anche nella Medicina di guerra perché altrimenti il rischio è di avere più vittime. Ciò non vuol dire che non siano stati curati tutti, le cure sono state garantite a tutti. Io non ho visto persone alle quali non è stata garantita, in ogni modo, assistenza.

12. La conoscenza e la sperimentazione progrediscono più in fretta durante l’emergenza?

Si studia molto di più. Io tornavo a casa e leggevo, soprattutto gli studi cinesi, anzi praticamente solo quelli. C’è da dire che, purtroppo, gli studi spesso erano delle ipotesi, cioè uno scambio di impressioni di quello che stava succedendo. La sperimentazione porta via tantissimo tempo, tantissimo tempo che in quel momento non c’era assolutamente. La maggior parte dei medici tentava il più possibile di sapere dai pochi studi che ci arrivavano dalla Cina, da studi che effettuavano, che però non avevano ancora risultati definitivi, e da ciò che si stava facendo in Italia. C’è stata, seppur in maniera ufficiosa, una collaborazione incredibile fra medici di tutta Italia per tentare di scambiarsi le proprie esperienze per tentare di dare la terapia migliore al paziente.

13. Ci dobbiamo aspettare che con la nuova stagione influenzale ci sarà un ritorno del Covid-19? E come sarà?

Bella domanda. Il Coronavirus fa parte di una famiglia di virus influenzali (perciò virus che si evidenziano in alcuni periodi dell’anno) e questo potrebbe essere il motivo per cui è sparito improvvisamente. Posso confermare, infatti, che dalla metà di aprile la situazione è cambiata in maniera radicale: dieci giorni prima eravamo subissati da malati con patologie gravissime, quindici giorni dopo la situazione stava migliorando, in maniera improvvisa e veloce. Io non sono un virologo, vi dico la mia impressione da medico anestesista. Gli studi dimostrano che il virus non è cambiato; notoriamente diventano più “buoni” perché è una condizione per poter resistere. Ma chi studia il genoma ha notato una particolarità: il virus non sta cambiando, è sempre “cattivo”. Quindi se è un virus stagionale, possiamo aspettarci la ricomparsa tra settembre e ottobre, cioè nel momento in cui si evidenzia il picco influenzale, ed è probabile che abbia la stessa forza lesiva che ha avuto. Di contro, adesso che lo conosciamo, quindi – stante che non c’è al momento una terapia che lo distrugga – abbiamo trovato terapie che possono attenuare in maniera importante l’effetto che il virus fa al nostro organismo, perché, è una cosa che anche voi avrete anche già sentito, la gravità della patologia non è data in realtà dal virus stesso, ma dalla reazione del nostro organismo al virus. Abbiamo capito come riuscire a contenerla nella maggior parte dei casi, per cui se si dovesse riproporre con la stessa forza, io credo che riusciremo a contrastarla in maniera importante. Credo che non ci saranno così tanti morti come abbiamo avuto in questo periodo. In più siamo preparati, per cui avremo modo sicuramente di identificare velocemente i posti di terapia intensiva o di modificare i reparti, visto che ci siamo già passati.

14. Avete capito perché questo virus resta attivo e positivo nell’organismo così a lungo nonostante l’assenza di sintomi?

Pare che all’interno dell’organismo rimangano “frammenti” di virus, che in quel momento non è vivo, ma fanno risultare positivo il tampone. Questo dovrebbe essere il motivo per cui, nonostante i tamponi siano positivi ancora dopo tante, tantissime settimane, i pazienti non hanno più il virus e non sono infettivi. È accaduto anche ai miei colleghi che sono arrivati al decimo tampone. Questa è una delle possibilità. Ripeto, è tutto in studio, stiamo ancora cercando di capire.

15. Com’è la situazione attuale?

È molto positiva. I Pronto Soccorso hanno ripreso l’attività normale: mentre i mesi scorsi avevamo solo accessi di malati Covid, al momento il paziente che arriva con questa patologia è in fortissima diminuzione. Per cui io credo veramente che la tempesta si sia fermata. Certo, fa un po’ paura dire “liberi tutti”, soprattutto perché non conoscendo ancora bene il virus, non avendo capito che il motivo esatto per cui sia sparito improvvisamente, non puoi neanche dire: “Ok, è sparito, siamo tranquilli, aspettiamo” e magari capita un’altra sorpresa. Pensare che sia stagionale è una deduzione che stiamo facendo. Perciò essere cauti è necessario perché abbiamo imparato che è un virus molto molto infettivo. Un invito alla prudenza è d’obbligo.

16. Che il virus in questo momento sia forte in Sud America significa che stanno facendo il nostro stesso percorso?

In Sud America sono nel momento peggiore, come avrete visto, anche se c’è da dire, per esempio, che adesso in Brasile dovrebbe essere inverno, per cui potrebbe starci… Il Brasile è molto grande e bisognerebbe capire – e io in questo momento non lo so – in quali zone ci sono i focolai maggiori.

17. C’è qualcosa che vuole dire ai suoi colleghi e ai cittadini?

Vorrei ringraziare i miei colleghi. Ripeto, è vero che abbiamo fatto il nostro dovere, però è stato estremamente faticoso: indossare i dispositivi di protezione per 12 ore, le notti in cui si doveva stare 12-13 ore con la mascherina, con gli occhialini, con tutte le protezioni… non poter andare in bagno, non poter bere, non poter mangiare… non poter fare assolutamente nulla. Spesso le mascherine tagliavano la pelle, quello che si è visto era la verità. Io ricordo un prurito pazzesco e la tentazione ogni tanto di strapparla via perché non ne potevi più.
Li ringrazio, i miei colleghi, perché anche in questa situazione triste non era scontato e non è stato facile lavorare in queste condizioni.
Noi medici abbiamo provato a fare del nostro meglio, ma anche la popolazione ha risposto bene: tantissime persone, nel momento della chiusura, hanno rispettato le regole nonostante le difficoltà. Ai cittadini ribadisco che è fondamentale ascoltare le disposizioni che vengono date.

18. Se se la sente può dire qualcosa che non abbiamo incluso nelle domande.

C’è un episodio che mi fa sorridere. Noi operatori sanitari partecipavamo proprio tanto a quello che succedeva ai pazienti, eravamo tutti uniti come se fossimo una famiglia. Mi viene in mente un ragazzo giovane… Indossavamo gli scafandri, lui aveva il casco per l’ossigeno che faceva un gran rumore per cui non riusciva a sentire praticamente nulla. Aveva da poco fatto un esame, i risultati erano molto buoni ed eravamo contenti. Sono andata da lui e gli ho detto: “Bravo, stai andando bene!”. Il ragazzo mi ha guardata e mi ha fatto ridere perché mi ha risposto: “Anch’io ti voglio bene!”.
Eravamo tutti uniti, tutti sulla stessa barca. Non era scontato eppure ho visto veramente persone sacrificarsi con tanta passione per il bene dell’altro. Questa è stata una cosa bella da vedere.

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