di Alfredo Somoza
C’è un tempismo sospetto nel succedersi degli eventi mediorientali degli ultimi giorni. E’ come un meccanismo impazzito che genera movimenti e reazioni che si manifestano anche a migliaia di chilometri dai luoghi dello scontro. La politica estera statunitense, dai tempi di Bush figlio e della sua lotta al terrore basata sugli interventi in Afghanistan e in Iraq, sta incassando frutti indigesti. Il mondo sunnita, fedele alleato di Washington è ora destabilizzato, il mondo sciita che gravita attorno all’Iran, storico antagonista di Washington, è uscito vincitore.
Il collasso dell’Iraq è stata la prima puntata della riscossa di Teheran che non soltanto vedeva sciogliersi il suo principale antagonista, ma in pochi mesi insediava un governo “amico” a Bagdad. La seconda puntata della riscossa iraniana è stata la sua vincente discesa nel conflitto siriano-iracheno, insieme a curdi e russi, per stroncare il progetto dell’Isis di creare un “arco sunnita” che superasse i confini coloniali stabiliti da Francia e Gran Bretagna nel 1916.
Il “Sunnistan” dell’Isis è stato un progetto sostenuto politicamente e finanziariamente dalle monarchie del Golfo e in primis dall’Arabia Saudita e dalla Turchia. L’Isis è un esercito belligerante con truppe e generali provenienti dai ranghi dell’esercito iracheno che aveva in comune con Al Quaida soltanto l’aspetto propagandistico, perché la sua dimensione terroristica finora è stata scagliata soltanto contro i paesi impegnati a combatterli sul campo: Francia, Gran Bretagna, Iran, Turchia (dal voltafaccia di Erdogan), Russia. Al posto del mancato arco sunnita, si è rinforzato quello sciita, che da Teheran arriva in Libano passando dalla Siria e dall’Iraq.
Il progetto del Sunnistan è ora fallito regalando prestigio alla Russia, rilanciando la causa curda, rinforzando gli hezbollah sciiti del Libano e soprattutto regalando all’ Iran la posizione di unica potenza militare regionale. Le mosse dell’Arabia Saudita dopo il passaggio di Donald Trump rispetto al Qatar sono difficili da decifrare. Il Qatar sicuramente ha finanziato i Fratelli Musulmani e anche l’Isis (come l’Arabia Saudita), ma era l’unico degli statarelli del Golfo ad avere buoni rapporti con l’Iran e forse questo è bastato per la messa al bando. Nemmeno 72 ore dopo, è stato colpito dall’Isis il cuore istituzionale e simbolico dell’ Iran.
Il Mausoleo di Khomeini e l’unico Parlamento dell’area che in qualche modo ricordi la democrazia sono stati l’obiettivo dell’Isis in ritirata che sancisce con questo attentato lo status dell’ Iran come vittima e non come generatore del terrorismo. Anche gli attentati a Parigi e Londra vanno letti così, l’Isis è allo sbando e sull’orlo di perdere le sue roccaforti in Iraq e Siria, quindi raddoppia gli attentati contro i “crociati” alleati sfruttando l’abbondante manodopera pronta al martirio. Una strategia che senza più capacità belligerante sul campo mediorientale è perdente e residuale.
L’Arabia Saudita con le misure anti-Qatar vorrebbe fare dimenticare velocemente la sua sconfitta geopolitica. Non solo il suo “braccio armato” non è riuscito a consolidare il sunnistan, ma l’intervento militare nello Yemen sta diventando un vero e proprio Vietnam. Se Donald Trump ha promesso nel suo viaggio di sostenere questa politica, che anzitutto destabilizza i suoi alleati (il Qatar ospita la più grande base militare USA della regione), sarà l’Arabia Saudita a pagare il conto. Indebitandosi per comprare armi e ancora armi che potrebbero servire solo per un certo tipo di conflitto, quello contro l’Iran. Una escalation bellica tra Iran e Arabia Saudita rischierebbe di trascinarsi dietro l’intero mondo arabo e le potenze globali, Usa e Russia in primis. Uno scenario da dottor Stranamore, quale sembra essere la cifra della nuovo diplomazia di Washington.
In conclusione, stiamo vivendo l’inizio della fine del conflitto siriano-iracheno e la notizia è che è stato perso dall’Arabia Saudita e dai suoi vassalli. Stanno vincendo un mix di forze che vanno dalla Russia all’ Iran, passando dai curdi che diventeranno a tutti gli effetti forze di “stabilizzazione” a conflitto concluso. Gli Stati Uniti hanno puntato sul cavallo perdente, anche se almeno Obama sancì la fine delle ostilità sul nucleare iraniano generando un credito nei confronti degli ayatollah, mentre l’Europa ha sbagliato tutto dall’inizio, aprendo l’autostrada della Jihad ai ragazzi che volevano andare a rovesciare Assad in Siria per ritrovarseli ora di ritorno radicalizzati e con esperienza militare.
E’ come se si fosse giocata una grande partita che ha spostato confini, sfere di influenza, popolazioni, capitali e che ci consegnerà un nuovo Medio Oriente, non più disegnato sui confini coloniali, ma sulla visione dei vincitori. Una riscrittura degli equilibri geopolitici che, come sempre in quella martoriata zona del pianeta, sta avvenendo in un drammatico bagno di sangue.