Joan Mirò: pittura vernacolare, poetica e fantastica

di Daniela Annaro

“Il rumore dei cavalli nella campagna, le ruote di legno di carri che cigolano lungo la strada, il suono di passi,le grida nella notte, i grilli. Le cose più semplici mi danno delle idee”.

Per tutta la vita, Joan Mirò, nato il 20 aprile 1883 a Barcellona, ha ribadito questo concetto. Era profondamente legato alla sua terra, la Catalogna, alla vita dei contadini, della natura, all’arte popolare. Parigi, Pablo Picasso, il cubismo, gli amici  dada,  Tristan Tzara,  e quelli  surrealisti, Paul Eluard e André Breton, alimenteranno la sua pittura, ma Mirò manterrà sempre  una visione propria, originale, poetica e fiabesca. E’ il 1918 quando dipinge L’orto e l’asino, ora conservato a Stoccolma. E’ un’allegoria. Apparentemente è un paesaggio: si vede l’orto, il cielo, le case del paese, l’asino che bruca. Joan ha già conosciuto la pittura cubista, ma come scrive il critico Michele Dantini:

Se una composizione cubista è usualmente descritta al tempo come un “prisma” o “cristallo” che ricompone il mondo aggregandolo in superfici geometriche regolari, bene, Mirò sta facendo qualcosa di simile- dunque dipinge cubista – ma riportando gli esperimenti dell’avanguardia parigina a una sapienza millenaria, a un uso per così dire vernacolare della geometria, al senso “naturale” che il contadino catalano ha dell’unità nella molteplicità.L’artista si appropria dei più innovativi linguaggi per adattarli all’antico che resiste e sopravvive.


Nelle opere successive, Mirò abbandonerà via via ogni desiderio di rappresentazione figurativa, si esprimerà attraverso  segni grafici deformati poeticamente che evocano elementi naturali (occhi, mani, lune, soli agli esordi anche parole), immersi in colori caldi, colori mediterranei.

 Allo scoppio della guerra civile di Spagna, siamo nel 1936, Joan Mirò si rifugia in Francia,a Parigi, rientrerà in patria solo nel 1942. E’  allora che inizia a dedicarsi alla ceramica, alle incisioni. Tecniche che lo riportano ai temi legati alla Catalogna, alle sue radici.


Nel 1954, vince il primo premio per la grafica alla Biennale di Venezia. Gli anni Cinquanta segnano il suo successo oltreoceano, espone in diverse città americane. Ma in patria per avere successo e riconoscimenti deve attendere la morte del dittatore Franco: nel 1978 riceve la Medalla d’Or de la Generalitat de Catalunya; nel 1979 l’Università di Barcellona gli conferisce la laurea honoris causa (l’Università di Harvard aveva già provveduto nel 1968); nel 1980 riceve la medaglia d’oro delle Belle Arti dal re di Spagna Juan Carlos; nel 1981 è premiato con la medaglia d’oro di Barcellona. Due anni dopo, muore a Palma di Maiorca. E’ il giorno di Natale del 1983. Nel 2016, il nipote Joan Punyet Miró mette all’asta  una trentina  di opere il cui ricavato servirà a finanziare la Croce rossa catalana.

Ho fatto semplicemente quello che avrebbe fatto mio nonno –  spiega-. Lui è stato un uomo che ha sofferto molto nella sua vita. Ha provato la fame e l’esilio durante la guerra civile spagnola e per questo voleva sempre aiutare chi era in difficoltà, i profughi e coloro che sono costretti all’esilio. Mia madre (la figlia di Miró, ndr) passò un anno in un letto della Croce Rossa. Le salvarono la vita ed evitarono che le venisse amputata una gamba. Mio nonno fu molto generoso con la Croce Rossa, e tra le altre cose donò all’ospedale dove avevano operato sua figlia un suo arazzo, Tapis de Tarragona. Era consapevole dell’enorme differenza che fanno le organizzazioni umanitarie nei momenti di grande sofferenza, come quella che vediamo oggi con la guerra in Siria.

L’asta Christie’s ottiene successo. Alla Croce rossa vanno  settantamila dollari.

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