di Giacomo Laviosa
Sotto la spinta decisa del padre Joseph forte di contatti personali di altissimo livello nel mondo politico e in quello economico-finanziario, nel 1961 John Fitzgerald Kennedy è eletto Presidente degli Stati Uniti anche se con un margine molto sottile.
Giovane, carismatico e fotogenico, caratteristiche ideali per il primo presidente che ebbe conferenze stampa e discorsi pubblici trasmessi in diretta televisiva, segnando un nuovo modo di fare politica negli Stati Uniti. Kennedy fu il primo presidente a utilizzare pienamente le potenzialità dei mass media cambiando per sempre il mondo della politica anche grazie al suo fascino e carisma.
Non a caso sono rimasti ben saldi nell’immaginario collettivo alcuni passaggi dei suoi discorsi in pubblico, ammantati di retorica americana e consapevolezza dei propri mezzi.
Nella formula della “Nuova Frontiera” in cui gli anni ’60 erano visti come occasione di “sfide, possibilità, ma anche pericoli, incompiute speranze e minacce“, è insita la convinzione che sono le diversità a fare la qualità dell’America, che la sua forza si esprime proprio in ragione del carattere composito del suo aggregato. Gli immigrati sono l’America, ci ricorda Kennedy con una forza argomentativa incontrovertibile. Pensiero che può suonare strano oggi che un candidato presidente fa bella mostra di razzismo e chiusura reazionaria all’integrazione.
La frase “Ich bin ein Berliner” pronunciata a Berlino nel giugno 1963, rientra nel gioco delle parti dello scacchiere internazionale con l’intento di comunicare alla città di Berlino e alla Germania stessa, seppur entrambe divise, una sorta di vicinanza e amicizia degli Stati Uniti dopo il sostegno dato dall’Unione Sovietica alla Germania Est nella costruzione del muro di Berlino due anni prima.
Tuttavia, Kennedy fu criticato per aver fatto un discorso che riconosceva lo status quo di Berlino nella realtà in cui era. Il discorso di Kennedy segnò il momento in cui gli Stati Uniti riconobbero ufficialmente che Berlino Est faceva parte del blocco sovietico insieme al resto della Germania Est.
In politica estera per tutto il periodo della sua presidenza ha seguito la partitura già scritta della guerra fredda. Con l’impossibilità di sciogliere l’impasse racchiusa tra lo scenario apocalittico della guerra termonucleare mondiale e la tentazione di interrompere ogni trattativa con l’Unione Sovietica, come chiedevano con ostinazione i raggruppamenti di estrema destra.
John Fitzgerald Kennedy potè imporre solo in parte alla politica americana una propria direzione; di fatto l’ombra di John Foster Dulles, il potente segretario di Stato durante la presidenza Eisenhower, continuò ad incombere per lungo tempo sulla politica estera americana.
Kennedy si distinse sostanzialmente per due iniziative: l’Alleanza per il progresso, un vasto piano di appoggio economico ai paesi del continente latino-americano, in ottica di contenimento della diffusione del castrismo; il Kennedy Round, in base al quale, al fine di favorire l’integrazione fra l’Europa occidentale e gli USA, si giunse ad un abbassamento delle tariffe doganali fra il MEC e il paese d’oltre oceano.
Giacomo Laviosa