di Daniela Annaro
Mondi lontani che si incontrano a Milano. Giovani artisti emergenti giapponesi e Italiani alla Galleria Nobili in via Marsala, due passi dal quartiere Garibaldi e a pochi metri dalla Pinatoca di Brera. Un esperimento interessante e unico che il Dialogo intende segnalare. Per questo abbiamo intervistato il giovane curatore, Matteo Galbiati.
Come è nata l’idea di questa mostra?
Nasce dopo la bellissima esperienza della mostra Iki che abbiamo proposto nel 2012 come collettiva tematica degli artisti giapponesi contemporanei della galleria Paraventi Giapponesi – Galleria Nobili. Con i galleristi, i fratelli Raffaella e Alessio Nobili, dopo una serie di mostre personali abbiamo pensato fosse doveroso far dialogare tra loro le diverse espressioni dei loro artisti, con linguaggi che spaziano dalla fotografia alla pittura, dalla scultura alla calligrafia. Per dare senso e ordine ad una tale varietà di contenuti si è voluto cercare un tema che fosse legato alla sensibilità e alla cultura nipponica tradizionale – questo anche per far vedere come in questi artisti, che pure lavorano tutti da diversi decenni in occidente, sia imprescindibile mantenere quell’imprinting culturale con il loro paese – la scelta, quindi, è ricaduta sulla riflessione di Kuki Shūzō, pubblicata nel 1930 nel saggio intitolato la Struttura dell’Iki, che la stessa gallerista stava leggendo e approfondendo. Il filosofo giapponese indagava le origini di una certa sensibilità radicata nella cultura del paese del sol levante.
Abbiamo poi scelto di intrecciare un dialogo anche con gli artisti italiani che, inconsapevolmente, condividono un’analoga attitudine e poetica con i giapponesi su questo tema specifico. La mostra ha suscitato l’interesse del Comune di Fortunato – grazie a Pino Ielo, anima dell’associazione fortunagoinarte – ed è stata riproposta negli spazi del Municipio del comune pavese l’estate dello scorso anno. Da questa esperienza la collaborazione con il comune si è ripetuta anche questa estate con la differenza che la mostra è stata concepita come progetto appositamente pensato per Fortunago (ed ora approdato negli spazi milanesi della galleria con qualche variante).
Il principio è stato comunque il medesimo: un dialogo di artisti giapponesi e italiani attorno ad una riflessione che permettesse di evidenziare le similitudini e le vicinanze inconsce tra la cultura orientale ed occidentale, troppo spesso, e retoricamente, sentite come diverse. Pur rispettando le ovvie distanze, abbiamo voluto trovare quei fili di consonante reciprocità.
Nella presentazione della mostra, abbiamo letto che sviluppate il tema di Kage, che cosa vuol dire?
Lo spunto per i contenuti di questa mostra derivano ancora, come accennavo, da un testo di un autore giapponese: Il Libro d’ombra di Tanizaki Juni’chiro, pubblicato nel 1933. L’autore evidenziava come, in anni in cui il Giappone – orgogliosamente chiuso nella sua millenaria cultura – iniziava ad aprirsi al mondo occidentale. Un contatto che, in certa misura, avrebbe mutato il volto della nazione, contaminandone costumi e tradizioni. Juni’chiro osserva come l’ombra, o la semi-ombra della casa tradizionale giapponese, fosse il mezzo per osservare il mondo in modo differente, forse più attento e consapevole. Di contro l’elettrizzante cultura occidentale cerca di portare tutto alla luce, di illuminare, di chiarificare. Kage – che significa proprio ombra – racconta di un’ombra che si colora, che materializza le visioni, che descrive stati d’animo. Senza connotazioni negative o foriera di sventure!
Artisti italiani e artisti giapponesi, quali sono i legami e le differenze tra loro?
Gli artisti che abbiamo scelto condividono un approccio all’opera che mi piace definire lirico, nel senso poetico. Sono costruttori d’immagini leggere, impermanenti, che si danno nella sottrazione. Fondando il loro senso su visioni che, per quanto intense e profonde, non gridano mai. Ecco mi piace pensare a loro come a delle voci che, quasi sommessamente, lasciano affluire quel messaggio che intimamente tocca e coglie chiunque. Silenzio, attesa, ascolto, comprensione sono quelle coordinate cui riportano lo sguardo e il pensiero queste opere. Del resto nell’ombra dobbiamo acuire la nostra percezione e, facendo così, torniamo ad essere attenti a dare tutto meno per scontato. L’ombra che vogliamo venga percepita è un’ombra metaforica. Tutti gli artisti, in un dialogo alla pari e senza discriminanti o opposizioni, ci regalano un’emozione sempre profonda.
I legami sono, allora, molto più forti delle differenze e, se escludiamo solamente l’individuale ricerca e linguaggio, tutti si avvicinano in un comune sentire. Se questo aspetto di vicinanza nella poesia trapela solo anche marginalmente nello sguardo dello spettatore, allora le battute scambiate tra le opere – voglio che siano proprio un dialogo – funzionano e chi osserva non resterà deluso.
Vorremmo chiederti di presentarci, in poche righe, i lavori degli artisti in mostra?
Gli artisti sono molti per una collettiva in uno spazio contenuto come quello di una galleria, ma, con un’opera per ciascuno non si creano squilibri. Inizierei dalle opere di Marco Grimaldi che, con una raffinata tecnica ad olio, propone una visione “radiografica” del corpo, tra luce e ombra ci rivela quello che, normalmente, resta invisibile. Asako Hishiki concepisce un’opera che, per la prima volta, si allontana dagli elementi naturali cui è solita ricorrere per comporre una sinfonia di “suoni” con forme astratte che si dislocano evanescenti sulle sue garze grezze. Pietro Pasquali si presenta con un’opera dove il colore, monocromo ma vivo e vitale, diventa spazio e ambiente mentale che accoglie, si accorda e intercetta le frequenze vibranti dell’anima. Patrizia Novello lascia decorrere un pigmento puro che, radice del colore stesso, nella sua fragilità dichiara anche tutta la propria autonomia trasformante.
Abbiamo poi due modi di intendere la scultura: monumentale, solida e concreta, ma esile come una scrittura nello spazio quella di Valdi Spagnolo, mentre, dall’altra, troviamo i piccoli profili di uomo di Takimoto Mitsukuni il quale, anche pensando ad un fare tradizionale della scultura lignea nipponica, presenta piccole presenze che paiono dover scomparire all’improvviso.
Avete intenzione di proporre questa esposizione ad altre gallerie o luoghi pubblici?
La volontà nostra – mia e dei galleristi – sarebbe proprio quella di poterla ampliare e perfezionare nei contenuti proponendola in uno spazio pubblico, o in un museo, che ne condivida il progetto. Un luogo che permetta una lettura maggiormente stratificata sia per il numero di artisti che per quello delle opere. Magari pensando anche ad un bel catalogo in cui si possa dar conto delle osservazioni critiche e documentare opere e, soprattutto, gli allestimenti che, per noi, sono fondamentali per una corretta lettura dei contenuti delle riflessioni.
Quando chiude la mostra alla galleria Paraventi Giapponesi – Galleria Nobili?
La mostra prosegue ancora per tutta la settimana in corso, fatta salva la decisione, visto l’interesse e il riscontro che sta suscitando, di prorogarla, ma questo spetta ai galleristi deciderlo.
Daniela Annaro