di Daniela Annaro
“Io non sono un inizio, non sono una fine. Sono un anello di una catena. La robustezza di una catena dipende dai miei stessi contributi, così come dai contributi di quelli che vengono prima e dopo di me”
Sono riflessioni appuntate sul diario di Keith Haring, giovane artista americano, pochi mesi prima di morire, nel 1990, ucciso dall’AIDS. Di lui e della sua arte, in modo nuovo e più profondo racconta la mostra a Palazzo Reale a Milano . Ne è curatore Gianni Mercurio.
Eravamo abituati a pensare al giovane Haring come uno street artist, un writer, un americano imbevuto di fumetti e di pop art, scopriamo invece un uomo e uno artista consapevole e impegnato capace di entrare nella storia della pittura, di essere molto di più di un testimone del proprio tempo. Keith nasce nel 1958 a Reading, in Pennsylvania, lo stato che molti anni prima diede i natali a Andy Warhol. Coincidenze geografiche, forse. La sua è la tipica famiglia americana della middle class, lui è il primo di quattro fratelli.
Che sia portato per il disegno non c’è dubbio, tanto che i genitori insistono per fargli frequentare, dopo il liceo, una scuola di grafica pubblicitaria, ma le ferree regole di quel mondo gli stanno strette: Keith è un ragazzo ribelle, cresciuto si’ a pane e Topolino, ma ostile all’egoismo reaganiano, alla deregulation del neoliberismo selvaggio. Non è né mai sarà uno yuppies. Keith non è tutto questo, lui attraverso quegli omini senza volto che traccia in metropolitana e suoi muri della città condanna la società dei consumi, la ricerca del guadagno a ogni costo, le perverse dinamiche del mercato dell’arte. Lui guarda all’uomo.
E l’uomo, rappresentante di un’intera umanità, dipinge. Come spiega Gianni Mercurio.
Keith Haring è un umanista: indaga la condizione umana, afferma la centralità dell’individuo in un mondo che tende invece a sostituire la sua presenza con le macchine. I suoi dipinti, i disegni, le sculture sono in tal senso tracce di una visione antropocentrica che egli non manca di rimarcare nei diari e nelle interviste,
Uomini con le braccia alzate, immagine che ritroviamo in tutte le epoche e le latitudini, dal tardomedioevo passando per l’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci. L’uomo al centro del mondo. E, Infatti, la prima sezione della mostra milanese si intitola “Umanesimo”: una tela di grandi dimensioni del 1981 , al centro una sagoma con un buco in mezzo e attorno quattro croci.
Mercurio offre una nuova lettura dell’ opera di Haring, una lettura che parte da queste considerazioni, a cui aggiunge uno studio comparativo con lavori di altri artisti – americani ed europei – come Jackson Pollock, Jean Dubuffet, Paul Klee, opere a cui Keith Haring ha guardato come ha studiato i calchi della Colonna Traiana. Pensavamo a quel giovane magro e occhialuto come un artista impegnato politicamente su temi come la droga, il razzismo, la minaccia nucleare e ora sappiamo, dopo aver visto questa mostra, non solo questo, ma che la sua arte e il suo sentire è perenne e immortale.