di Carlo Rolle
Buongiorno, amici lettori. Vi propongo un libro che mi è piaciuto moltissimo: “La Cripta dei Cappuccini” di Joseph Roth, pubblicato nella collana “Biblioteca” di Adelphi.
Questo fu il primo libro di Roth pubblicato da Adelphi. Fu stampato inizialmente in piccola tiratura, soltanto tremila copie, perché quando uscì, nel 1974, Roth non soltanto era quasi sconosciuto in Italia, ma nemmeno veniva più letto nei paesi di lingua tedesca. Però questo libro ebbe un successo inaspettato, tanto che Adelphi stampò il successivo romanzo di Roth in trentamila copie e della “La Cripta dei Cappuccini” fece undici ristampe nei primi undici anni. Io lo comprai nel 1985, all’undicesima ristampa.
Vi confesso che il mio primo approccio a questo libro mancò il bersaglio. Non che non l’avessi letto; lo lessi dal principio alla fine, ma a ventisei anni non ne compresi la bellezza. Solo pochi anni dopo ne ritenevo un’impressione sfocata, indistinta. Mi mancava l’esperienza di vita per capirlo, non avevo ancora sperimentato le difficoltà, le perdite dolorose, i fallimenti e l’attrito che – anche nelle vite più fortunate – il tempo infligge alle persone e alle cose che amiamo, e che gradualmente ci separa da esse, trasformandoci in sopravvissuti, che abitano mentalmente un mondo già scomparso e incomprensibile agli altri.
Ma poi ho riletto questo libro a sessant’anni e l’ho trovato bellissimo, l’ho trovato un capolavoro.
Giovinezza di Joseph Roth
Moses Joseph Roth era nato nel 1894 in un villaggio vicino a Brody, presso Leopoli (oggi L’viv in Ucraina), in Galizia, alle estreme propaggini orientali dell’Impero Austro-Ungarico, crogiolo di popoli, di religioni e di lingue.
La famiglia Roth era parte di una delle tante comunità ebraiche dell’Europa Orientale, ed era dedita al commercio. Il padre Nahum, anch’egli commerciante, fu colpito da gravi disturbi mentali quando Joseph era molto piccolo e fu prima ricoverato in una casa per malati di mente e poi affidato a dei parenti. Poiché nell’ambiente ebraico ortodosso della Galizia la pazzia era considerata un castigo di Dio, si preferì far diffondere che la voce che Nahum Roth si fosse impiccato.
Joseph crebbe con la madre, conoscendo presto la povertà o almeno la mancanza di sicurezza economica, un elemento che si ritrova in questo libro, denso di elementi autobiografici.
Dopo aver conseguito la maturità nel 1913, Roth si trasferì a Vienna, frequentando l’università. Qui lo raggiunse la madre: nel frattempo a Leopoli le tensioni tra le nazionalità e tra le componenti della comunità ebraica avevano reso il clima molto pesante.
La fine di un mondo
Lo scoppio della Grande Guerra portò Joseph sul fronte orientale. Al suo ritorno, nel 1918, il mondo che aveva conosciuto, l’impareggiabile civiltà viennese, amante della cultura, della scienza, della musica e dei piaceri della vita, era stata quasi annientata dalla guerra, dalla crisi economica e dalla sconfitta.
Finito lo stato multi-etnico, da tempo una reliquia in un mondo di incandescenti nazionalismi; drasticamente rimpicciolito il territorio nazionale; deposta la monarchia; la società minata dall’inflazione, affamata dal blocco economico, impoverita dall’impossibilità dello stato a ripagare i prestiti, turbata dalle rivoluzioni, invasa dai profittatori e dai ciarlatani, che il caos porta a galla e presto sommerge.
Cancellati i risparmi, le reti di relazioni costruite nel corso di generazioni, le consuetudini sulle quali tutti contavano in quell’Impero immobile, retto dal un anziano sovrano, imprigionato in un cerimoniale immutabile, al quale adempiva da decenni quasi come un automa.
La guerra e i disordini etnici e politici avevano addirittura condotto alla scomparsa di interi villaggi, fra cui alcuni nella Galizia, alla dispersione di comunità, all’emigrazione di molti parenti e amici e alla rovina economica di altri.
“La Cripta dei Cappuccini”
Tutto questo c’è in questo libro, scritto in prima persona da un personaggio che si chiama Franz Ferdinand Trotta, le cui vicende hanno molto in comune con quelle dell’autore. Il protagonista, che ha alcuni parenti in Galizia (la regione in cui era nato Roth), vive a Vienna con la madre vedova ed abita una bella casa. L’agiatezza gli fa condurre un’esistenza spensierata, che la Guerra interrompe bruscamente, imponendo da subito scelte drastiche e affrettate.
Trotta si dichiara ad una ragazza che gli piace, il giorno dopo la sposa, il giorno dopo ancora parte per il fronte. È riuscito a farsi inviare in Galizia, dove ha due amici di modesta condizione, un cugino ed un amico di questi, ai quali Trotta è legato. Ma l’Austria subisce immediatamente delle sconfitte sul fronte orientale e i tre sono fatti prigionieri dei Russi, scampando così ai massacri della Grande Guerra.
Nel 1918 Trotta torna a Vienna, dove nulla è più come prima. La sicurezza economica di un tempo si è ormai dissolta, il protagonista non ha imparato alcun mestiere e la grande casa di famiglia viene messa in parte a pensione, la giovane moglie lavora con due ciarlatani, il suocero si infila in affari sbagliati.
Tutto rimane precario nel dopoguerra. L’inflazione, l’insicurezza economica e politica sgretolano i resti del vecchio mondo che Trotta amava, mentre nubi sempre più fosche si addensano: la dittatura di Dolfuss, l’infiltrazione nazista nel paese. Il libro termina nel 1938 il giorno dell’annessione dell’Austria alla Germania nazista. La catastrofe è giunta al culmine, la notte è calata sull’Austria.
Giudizio sul libro
Roth, che già da anni viveva a Parigi un’esistenza complicata ed affannosa nonostante il suo successo come giornalista, aveva capito benissimo quello che si preparava. Entrambi i mondi ai quali egli apparteneva, l’Impero Austro-Ungarico e la civiltà ebraica dell’Europa Orientale sono stati annientati, cancellati dalla storia. Roth morirà solo un anno dopo aver finito questo romanzo, nel quale si ritrova tanto della sua esistenza.
Eppure non c’è amarezza in questo libro, non vi è drammatizzazione né oratoria, e neanche l’occasionale sarcasmo che un grande scrittore avrebbe potuto permettersi. Pur nel crepuscolo di un mondo amatissimo, affiorano quest’opera umorismo, empatia ed indulgenza persino per la follia e la durezza che contraddistinguono tante azioni umane.
Lo sguardo di Roth non indugia mai sul male, lo accenna appena, quando è proprio indispensabile farlo. Per contro, Roth ha come un talento, un’inclinazione naturale per riconoscere e narrare la bontà, la generosità nascosta sotto i modi burberi e rigidi delle persone, sotto il loro linguaggio goffo e reticente, sotto le debolezze e l’irrazionalità che le trascinano come fuscelli nel vento della Storia.
La Cripta dei Cappuccini di Joseph Roth è un libro stupendo, amici lettori, ed ammirevole anche per la sua scorrevolezza e concisione (meno di duecento pagine). Mi ha incantato soprattutto per la nobiltà che lo anima, che fa librare il racconto sopra le ristrettezze, le incomprensioni e le sventure narrate.
La sua lettura, specialmente ora che una grande guerra infuria proprio dove Roth visse e dove la vicenda del libro in parte si svolge, non può che turbare profondamente. L’Europa in cui siamo cresciuti si trova nuovamente di fronte all’ignoto.
(Testo di Carlo Rolle)
In copertina: particolare da un dipinto di Julius von Blaas (1890 ca.)