La giornata mondiale della traduzione

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di Claudia Terragni

L’Europa sembra sempre più un puzzle di tesserine isolate. Sempre più spesse le barriere e sempre più alti i muri che si innalzano sui confini. Muraglie che proteggono, ma muraglie che chiudono. Impediscono l’incontro, negano lo scambio. Sempre più consensi trovano i partiti che vogliono sollevare il ponte levatoio del proprio Stato. Rintanarsi nel proprio castello, al sicuro dal nemico che avanza.

Più ci si chiude nella propria fortezza e meno si sente la voce dell’altro. A maggior ragione se non si capiscono le parole. I suoni di culture diverse e apparentemente incomprensibili si mischiano e si confondono nel mondo globalizzato. Diventa sempre più viscerale il bisogno di tradurre in una lingua nota realtà che suonano inconciliabili.

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Antonello Da Messina- s. Girolamo nel suo studio, National Gallery Londra

Il 30 settembre ricorre la giornata mondiale della traduzione, istituita dalla Fédération internationale des traducteurs a partire dal 1953. La parola tradurre viene dal latino trans ducere, condurre al di là. È ciò che permette di superare le barriere linguistiche e conoscitive. È il richiamo che consente di riaprire le porte allo sconosciuto, all’invasore che assedia le mura.

È stato scelto il 30 settembre in onore della morte di San Girolamo, Padre della Chiesa e teologo romano. Lo studioso fu il primo a compiere la mastodontica opera di traduzione dell’intera Bibbia dall’ebraico al latino. Gli ci vollero anni e anni di lavoro per portare compimento la Vulgata, versione ufficiale della Bibbia latina riconosciuta nel Concilio di Trento.

Trans ducere: portare al di là della barriera, anche se non si sa cosa si nasconda oltre. Girolamo non temeva l’ignoto, non rifuggiva la diversità. Una delle immagini più diffuse del santo è quella che lo affianca al leone. La leggenda vuole che un giorno la belva si avvicinò al monastero dove risiedeva il teologo e lui fu l’unico a non scappare impaurito di fronte al feroce animale. Non si lasciò intimorire dal pericolo dell’alterità. Accettò la differenza e si aprì all’incontro per scoprire che l’animale si era addentrato tra le mura di un luogo umano in cerca di aiuto. Girolamo curò il leone ferito togliendogli la spina dalla zampa e l’animale restò per sempre al suo fianco.

Tuttavia spesso accettare il dialogo non è sufficiente per dialogare. La traduzione non è riconducibile ad una superficiale sostituzione di termini di lingue diverse. Non è semplicemente questione di trovare la tesserina con la stessa parola, come si stesse giocando a Memory. Una traduzione sbrigativa non può far altro che portare a malintesi e conflitti. Girolamo stesso scrive “l’ordine delle parole è un mistero, non rendo la parola con la parola, ma il senso con il senso”. (Epistulae 57, 5, trad. R. Palla).

Lo studioso cristiano anticipa di secoli la filosofia delle scuole antropologiche contemporanee. La decifrazione antropologica di culture estranee non ha a che fare con i termini in sé ma con il loro significato, con il senso che una società attribuisce ad un vocabolo, a un evento, a un rituale.

L’antropologo americano Geerz parla di antropologia interpretativa: per spiegare realmente il diverso non ci si può limitare a sostituire una parola con un’altra ma è necessaria un’interpretazione. Si rimane incantati all’idea che, per esempio, ciò che noi chiamiamo neve, viene definita dalle popolazioni eschimesi con almeno un centinaio di vocaboli distinti. Serve interpretare continuamente, in un circolo ermeneutico infinito, in un comprendere circolare.

Tradurre non è più un semplice portare al di là di un muro. Tradurre è abbattere il muro in una “fusione di orizzonti”. Si deve cambiare prospettiva, unire la propria a quella straniera, integrare la propria identità culturale con quella altrui e viceversa. Condividere le aspettative di senso, per godersi insieme un orizzonte appena nato.

 

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