di Francesca Radaelli
Ha la naturalezza e la semplicità dei veri rivoluzionari Lucia Montanino, la protagonista dell’incontro di lunedì scorso del ciclo “Donne per la pace”, organizzato presso la biblioteca del Carrobiolo da Caritas Monza e Fondazione Monza Insieme.
Lucia ha la calma e il sorriso di chi sa di stare dalla parte giusta, di essere strumento di giustizia. Calma e sorriso che racchiudono un travagliato percorso di dolore e ricerca di senso, culminato nell’abbraccio con uno dei responsabili dell’omicidio di suo marito e poi continuato nel segno del perdono. Una donna capace di andare, con semplicità, ben oltre il concetto di “giustizia riparativa” accompagnando il responsabile del suo dolore in un percorso di ricostruzione della propria vita fuori dal carcere.
La serata, dedicata alla testimonianza di Lucia è stata introdotta dal giornalista Fabrizio Annaro, moderata da Donatella Di Paolo, giornalista, scrittrice e volontaria, e ha visto anche la partecipazione dell’esperto di mediazione penale Giulio Russi, dell’associazione “Incontra”, impegnato nella promozione dei percorsi di giustizia riparativa.
Storia di un abbraccio
Si parte dal libro “Storia di un abbraccio”, in cui si srotola il racconto della storia di Lucia: una notte di agosto del 2009, a Napoli, Lucia perde improvvisamente il proprio amatissimo marito Gaetano Montanino, guardia giurata, ucciso da un commando di quattro ragazzi. Una “rapina di pistola”, secondo la verità giudiziaria. Ma dietro c’è forse dell’altro: “Dopo un anno dalla sua morte, l’istituto di vigilanza dove lavorava mio marito viene chiuso perché gestito da camorristi”, racconta Lucia. “Allora mi sono chiesta se la responsabilità più grave fosse delle istituzioni, che avevano dato il permesso a un istituto di camorristi di lavorare sul territorio, o di quattro ragazzini che per non so quale motivo quella sera avevano deciso di commettere quell’omicidio?”.
Dopo un periodo di estrema sofferenza, Lucia inizia a vedere la tragedia di suo marito sotto una luce diversa: “Quei ragazzi erano solo l’ultimo anello di una società malata”. Ma nel 2009 non si parlava ancora di giustizia riparativa. “Ho iniziato a frequentare associazioni di parenti di vittime e a partecipare a iniziative nelle carceri minorili. In uno di questi era recluso Antonio, uno degli assassini di mio marito. Quando ho scoperto che voleva incontrarmi sono andata in crisi”.
Ma dopo otto anni si arriva all’abbraccio tra Lucia e quel “ragazzino” che avanza verso di lei con gli occhi pieni di dolore e di lacrime: “Non ho fatto nulla di straordinario”, dice Lucia, “mi è venuto spontaneo abbracciarlo, come se fosse un bambino, mentre lui piangeva. Non mi sembra di aver fatto nulla di straordinario, ho semplicemente cercato di dare un senso a quella morte, e di non diventare una persona piena di odio e rancore”.
La scelta di Lucia: dare una prima possibilità a chi parte da zero
Antonio è orfano di papà, la mamma è una “sbandata”, che rifiuta il percorso di riconciliazione intrapreso dal figlio. “Quando l’ho incontrato Antonio non era già più la persona che aveva ucciso mio marito, aveva già fatto il primo passo di un percorso. Non volevo dargli una seconda possibilità, ma una prima possibilità”. Lucia spiega che ragazzi come Antonio sono frutto dell’ambiente in cui sono nati e per loro il carcere può rappresentare la prima possibilità, per impostare una nuova vita. E poi la sorpresa: il magistrato, per la prima volta in Italia, fa uscire Antonio in libertà vigilata 14 anni prima del termine della pena.
“Il problema è che, una volta fuori, non trova nessuno ad accoglierlo, così si rivolge a me. Inizia a lavorare in un bene confiscato dedicato a mio marito. L’ho aiutato a trovare una casa per la sua famiglia, un lavoro, esattamente come ho fatto con mia figlia”.
Di fatto, come sottolinea Donatella Di Paolo, Lucia si sostituisce allo Stato, assume su di sé un ruolo che avrebbe dovuto svolgere lo Stato.
Giustizia riparativa: un “tradimento” del senso comune
“Il racconto di Lucia è un piccolo trattato di giustizia riparativa”, commenta Giulio Russi. “L’obiettivo dei percorsi di giustizia riparativa è infatti quello ricostruire la propria vita e nello stesso tempo quella della persona che ti ha fatto del male. Questo rappresenta un tradimento rispetto alla mentalità comune, alla spinta che porta la vittima verso la vendetta: vuole trasformare la vendetta perché diventi qualcos’altro”. A proposito dell’odio, Giulio Russi legge le parole tratte dal diario di Etty Hillesum, scrittrice ebrea, morta ad Auschwitz, che dichiara di “non essere capace di odiare gli uomini nonostante l’ingiustizia al mondo. Ogni istante possiamo sconfiggere la guerra con l’amore che abbiamo dentro”.
Il mediatore penale si sofferma sull’opportunità, fornita agli attori dell’incontro, che ognuno possa raccontarsi, raccontare la propria storia: “Nei processi in tribunale questo non avviene, invece è fondamentale”. Spiega che virtù del mediatore sono la pazienza e l’umiltà: bisogna rispettare i tempi delle persone e non giudicare né chi ha fatto il male, né chi sente un desiderio di vendetta, che attraverso l’incontro può trasformarsi in qualcos’altro. “La possibilità che viene data è quella di trovare una strada comune: non più l’odio ma il riconoscimento”, conclude Giulio Russi. “Ciò che accomuna le persone è la sofferenza. Solo se la si riconosce può partire il cammino di rinascita e ricostruzione di un percorso”.
La responsabilità di “fare la propria parte”
“Ricordiamoci però che non basta parlare, dobbiamo anche fare”, sottolinea Lucia. “Quei ragazzi sono figli nostri e lavorare perché escano migliori dal carcere spetta anche a noi: ognuno di noi può fare la propria parte. La catena dell’odio va spezzata”.
Appare un’operazione difficile, soprattutto guardando al racconto mediatico di molti fatti di cronaca, ma Lucia si dice convinta “che dentro di noi ci sia più amore che odio, dobbiamo farci guidare dai sentimenti. È la cultura che ci porta a pensare che dobbiamo odiare, ripagare con la stessa moneta. Il cuore ci dice altro: per me è stato così e nel vedere quel ragazzino sono stata portata ad abbracciarlo, come se fossi la sua mamma”.
Spesso però i ragazzi come Antonio vengono lasciati soli: “Sarebbe stato bello che per Antonio lo Stato avesse investito due o tre anni in borse lavoro: chi parte da sotto lo zero, ha bisogno di essere aiutato più degli altri, deve essere seguito dallo Stato”. Questa forse sarebbe la reale giustizia. “Invece”, prosegue Lucia, “a lui ho fatto io da garante per tutto, dal lavoro alla casa. Per me solo così il sangue di mio marito può avere un senso. Però è un dolore vedere che, sul sacrificio dei nostri cari, si fa tanta politica, ma ci si preoccupa poco per risolvere davvero i problemi”.
Le altre testimonianze
Interviene alla serata anche Carmela, moglie di Giuseppe Palumbo, vittima innocente di camorra, ucciso durante una sera di Capodanno in famiglia, che racconta la sua ricerca di verità sulla morte del marito. Anche dal suo racconto si delinea l’immagine di uno Stato poco interessato a stabilire verità e giustizia, poco vicino alle vittime anche quando condanna i colpevoli.
E poi Piera, anche lei vittima di camorra, che racconta la propria attività di contrasto alle mafie nelle scuole e sottolinea l’importanza di parlare con i ragazzi: “Se nessuno ti ascolta, vai per strada, e chi ti ha armato siamo noi, siamo tutti responsabili. E devianze di questo tipo ci sono anche in Brianza, ne ho trovati tantissimi esempi”
Arriva invece dalla Calabria la testimonianza di Maurizio, impegnato a inserire in percorsi lavorativi di inclusione i ragazzi provenienti dalle carceri: “Non si sceglie dove si nasce: mio papà era un affiliato dell’ndrangheta. Io però ho fatto la scelta di restare e provare a cambiare quel territorio, partendo dal basso, impegnandomi per cercare di “bonificarlo” dalla mentalità mafiosa”.
Se la giustizia riparativa dal 2021 è entrata nella legislazione italiana, è però innegabile che il sentire comune spesso percepisce l’incontro tra vittime e colpevoli come qualcosa di innaturale e incomprensibile. Cosa è possibile fare allora per cambiare questa mentalità?
Alla domanda, che viene dal pubblico, Giulio Russi risponde citando di nuovo le parole di Etty Hillesum (“la guerra si può sconfiggere con l’amore che abbiamo dentro”) per affermare con forza che l’approccio riparativo lo può adottare ciascuno di noi nella vita di tutti i giorni.
Ma la risposta più eloquente è forse proprio la storia di Lucia che, con semplicità e con il sorriso, continua a costruire, ogni giorno e responsabilmente, la sua idea di giustizia.