La marmellata della memoria

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di Claudia Terragni

A un sacco di gente piace la marmellata. Secondo i dati IHA del 2000, confetture e marmellate hanno una penetrazione nelle famiglie italiane del 43,7%. C’è chi ama spalmarla su una fetta di pane fresco per colazione, chi la preferisce nella crostata di mamma, chi la degusta con il formaggio e chi addirittura se la gode mettendo il dito direttamente nel barattolo. La marmellata sa di quotidianità, ricorda Nonna Papera, profuma di casa.

Anche nel campo di concentramento di Auschwitz c’era la marmellata. Ad Auschwitz chiamavano “marmellata” i resti di cervello umano rimasti per terra.

Un viaggio ad Auschwitz non si può certo considerare una scampagnata. Marcel Proust scriveva: “il solo vero viaggio non sarebbe quello di andare verso nuovi paesaggi, ma di avere occhi diversi, di vedere l’universo con gli occhi di un altro, di cento altri”. La natura del viaggio non sta in dove si va ma in come si torna. Credo che dopo un viaggio ad Auschwitz non sia possibile tornare nello stesso modo in cui si è partiti.

L’anno scorso ho avuto la possibilità di partecipare all’iniziativa “In treno per la memoria”, un viaggio promosso dai principali sindacati a cui aderiscono numerosissime scuole italiane. Con altri 419 studenti, io, due compagni e un professore del Liceo Parini di Seregno, ci siamo imbarcati in questa avventura. Dal 19 al 22 marzo, dal Binario 21 della Stazione Centrale di Milano a Cracovia e poi ai campi di concentramento di Auschwitz e Birkenau. Un viaggio disarmante, dove sei chiamato a mettere in gioco te stesso, volente o nolente. È un viaggio che riesce ad unire persone di ogni ordine e grado: in treno si incontrano ragazzi italiani e stranieri, pensionati, giornalisti, professori, operai, disabili, figli di reduci dei campi di sterminio. I vagoni del treno per Auschwitz sono un colorato intrigo di vite diverse, unite da un unico obbiettivo: la visita ai campi. Certo non si arriva impreparati, grazie ai numerosi incontri, dibattiti e momenti di riflessione. Ma c’è sempre qualcosa che sfugge.

È impossibile dirsi pronti ad affrontare l’ipocrisia di quel folle luogo polacco. Impossibile rimanere immuni al disarmante silenzio che si incontra tra le baracche.

Auschwitz
Auschwitz smuove i pilastri del tuo io, scuote le viscere della tua anima. Guardi in faccia l’orrore e l’orrore guarda in faccia te. “E se tu scruterai nell’abisso, anche l’abisso scruterà in te” come scriveva Nietzsche. Non si può evitare un intimo coinvolgimento personale per un motivo terribilmente semplice. Perché il perverso meccanismo che regnava ad Auschwitz e Birkenau non è frutto del demonio. Il punto è proprio questo: l’abbiamo fatto noi! È l’uomo che ha dato il via a questa fabbrica di morte e umiliazione. È l’uomo che disintegrava suo fratello, nazisti contro detenuti, detenuti contro altri detenuti. Ogni più piccola particella di ragionevolezza spazzata via dall’astio, dalla perversione, dall’allucinante contraddizione che contrappone uomo a uomo. Inspiegabile, pazzesco.

Dopo Auschwitz non ci si sente neanche più in diritto di piangere perché anche noi, in quanto parte della natura umana, abbiamo creato tutto questo.

Senti il disgusto contorcerti lo stomaco. Raccapricciante.

È troppo facile definire Auschwitz come “disumano”. Così ci assolviamo, ce ne distacchiamo, ci estraniamo. Neghiamo che questo macabro sterminio nasce dalla sostanza umana, quindi potenzialmente da ognuno di noi. Il male è in me quanto in Auschwitz. Auschwitz è anche in me. Anche io sono Auschwitz.

Credo che il senso di questo viaggio sia stato il ritrovare l’umanità: essa sta tanto negli occhiali da vista che mi vengono strappati all’arrivo al campo, quanto nelle bastonate che costringono un mio simile a mangiare la merda di suo fratello. È umana tanto la straziante disperazione con cui ci si separa dal marito al momento della selezione, quanto l’indifferenza con cui si getta il corpo del proprio padre in un forno crematorio. Umano il suicidarsi contro il filo spinato, umano il cuocere patate rubate sui vapori rilasciati dalla diarrea nei cessi.

Ma c’è speranza?

Non sono la prima e non sarò certo l’ultima a definire il viaggio con il Treno della memoria come un “pellegrinaggio laico”. Sono milioni i motivi che possono spingere un uomo a intraprendere un pellegrinaggio, ma quello più diffuso (e forse banale) è proprio la speranza. La speranza di ritrovare la tanto agognata salute, di capire sé stessi, di trovare un senso a qualcosa che sembra non averne. Ma dove sta la speranza in un pellegrinaggio all’inferno? Proprio nel pellegrinaggio.

La speranza sta nel fatto che ancora oggi, dopo settant’anni dallo smantellamento di Auschwitz–Birkenau, oltre 30 mila ragazzi e ragazze da tutta Italia e dall’estero decidono di partire. Partono, non stanno fermi. Si muovono, non restano impassibili all’orrore. Giovani menti si interrogano, cercano risposte. Vogliono vedere con i propri occhi le stesse omertose betulle che guardavano i forni crematori. Vogliono respirare il vento gelido che sferzava il volto di cadaveri che ancora si reggevano in piedi a forza di latrati. Vogliono annusare con le proprie narici il tanfo che ancora si intuisce impregnato nelle travi delle baracche. Non si accontentano. Non ci accontentiamo. E la cosa forse più sorprendente è che in tutta questa tremenda realtà trovi ciò per cui sei partito. Trovi speranza in tutto questo. Perché se anche io sono Auschwitz, anche io lo posso fermare. Perché se il fumo di Birkenau non disonora più il cielo polacco, il bene in qualche modo ha prevalso. Perché se il sadico meccanismo dei campi è fallito di fronte alla storia, così il male dell’essenza umana può essere sconfitto. E tutti possiamo combattere l’Auschwitz che è in noi. Possiamo decidere di accogliere al posto di cacciare, di amare al posto di odiare, di perdonare al posto di vendicare.

Per non dimenticare ciò che è stato. E per non dare per scontato ciò che sarà.

אני מאמין Ani ma’amin, I believe

 

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