La morale della Brexit

di Alfredo Somoza

Per il Regno Unito, il bilancio del primo mese da Paese extracomunitario è stato nero. Contrariamente a quanto si diceva nel 2015, ai tempi della campagna referendaria che portò al voto favorevole all’uscita dall’UE, è crollato l’export con gli Stati comunitari, -40,7% in media, con punte del -63% nel settore alimentare.

Nel frattempo è cresciuto di un misero 1,7% l’export verso altri Paesi, mentre l’import dall’UE è calato del 28,8%. Come facilmente prevedibile, tranne che per i fautori della Brexit, la perdita di una posizione di privilegio garantita dall’appartenenza a un mercato con regole comuni, e senza dazi interni, è difficilmente recuperabile con le aperture ad altri mercati esteri. Soprattutto perché la produzione britannica ha standard molto elevati (fino al 2020 erano quelli dell’Unione) e ciò determina prezzi più alti rispetto ai concorrenti esterni all’UE, statunitensi o asiatici.

Il governo di Boris Johnson minimizza, parlando di circostanza straordinaria, ma il problema resterà. Anche perché Londra e l’UE non hanno voluto discutere sulle barriere non tariffarie, cioè su tutte le normative a garanzia del consumatore e della sicurezza ambientale che permettono o vietano la circolazione di ogni merce estera nel mercato dei 27 Paesi membri. Si tratta di un insieme di regole spesso utilizzato ad arte per bloccare quei prodotti che possano fare concorrenza alle aziende europee, e talvolta ignorato quando si tratta di far fronte ai bisogni del mercato europeo, come l’import di soia ogm come foraggio per il bestiame.

Il Regno Unito aveva sottovalutato questi due fattori: da un lato l’avvenuto adattamento della sua produzione ai bisogni, alle regole e ai costi dell’Unione Europea, dall’altro i tempi lunghi che servono per costruire una rete di accordi e di regole condivise con altri Paesi del mondo, e anche con l’UE stessa, ma da Paese extracomunitario. Hanno prevalso, invece, l’arroganza del pensarsi ancora come un impero capace di imporre regole e tempi e, soprattutto, il sognare che da soli sarebbe stato possibile ottenere maggiori vantaggi di quelli garantiti dal mercato comune.

Nel frattempo, il prezzo pagato dai britannici ha raffreddato gli animi sovranisti in Europa, e probabilmente ha permesso che per la prima volta a Bruxelles si sia deciso di sottoscrivere debito comune, come sta accadendo per il programma Next Generation UE.

Con il Regno Unito dentro, di certo l’Unione non avrebbe potuto fare ulteriori passi verso la costituzione di una federazione di Stati. Ora, anche senza Londra, non è detto che quei Paesi che ieri usavano lo scetticismo inglese come alibi si dimostrino pronti a fare passi concreti.

Eppure, in Europa siamo probabilmente di fronte all’ultima possibilità di intraprendere una fase di progressivo aumento delle competenze e delle responsabilità messe in comune. Sull’occupazione, sulla cittadinanza, sul welfare, sulla difesa, sulla politica estera e sulla fiscalità, è il momento di disegnare strade convergenti. Anche a rischio di perdere altri Stati oppure di ipotizzare, come già si fa, un’Unione “a due cerchi”, con un nucleo di Paesi che intraprendono una strada comune e un altro di Paesi collegati da accordi commerciali.

Anche se di Europa non si parla da tempo, il momento è ora. Sarebbe la migliore uscita dalla pandemia. Tra l’altro, dando al mondo un segnale forte sul fatto che la cooperazione “rende” più delle guerre: tanto quelle tra gli eserciti quanto quelle combattute tra le economie.

 

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