di Giacomo Orlandini
Si tratta di un gesto semplice, avvolto dal dolore atavico e dall’indignazione che, attraverso la protesta contro la brutalità della polizia e l’ingiustizia razziale guidata dal quarterback Colin Kaepernick sui campi della National Football League (la più importante lega professionistica di football americano), si è rivestito di una nuova potenza mediatica.
Mettersi in ginocchio. Espressione energica e ferma della propria opposizione.
In questi ultimi giorni difficili e incerti, non solo per gli Stati Uniti, i manifestanti di tutto il mondo hanno fatto ricorso a questo gesto per le strade delle rispettive città. Una comunità globale eterogenea, si è fatta portavoce della contestazione scaturita dalle tragiche vicende di George Floyd, inginocchiandosi per lunghi minuti di riverenza. L’esempio è stato sporadicamente emulato persino da agenti delle forze dell’ordine e da politici di spicco, come atto di solidarietà e sforzo pacificatore.
Già a partire dagli incontri della pre-stagione di NFL 2016-2017, Kaepernick iniziò a poggiare un ginocchio a terra durante l’esecuzione dell’inno nazionale, tradizionalmente suonato prima di ogni partita di football americano, che i giocatori di consuetudine ascoltano in piedi.
“Non voglio onorare un paese in cui la minoranza nera è ancora oppressa” disse Kaepernick ai giornalisti, riferendosi agli episodi di violenza razziale commessa da agenti di polizia in quel periodo. Il suo gesto iniziò presto ad essere imitato da molti giocatori professionisti, dapprima nella NFL e poi anche in altri sport, attirando una considerevole attenzione. Kaepernick ebbe l’idea dopo aver consultato un ex militare, Nate Boyer, che aveva prestato servizio in Iraq e in Afghanistan prima di giocare a football professionalmente. “Colin mi ha chiesto cosa pensavo dovesse fare“, ha detto Boyer, “Io feci delle ricerche e trovai una fotografia di Martin Luther King Jr. in ginocchio mentre pregava e protestava, negli anni ’60”.
Quella stessa sera, prima della partita, mentre Kaepernick si inginocchiava sentì il giudizio tagliente e i fischi indignati del pubblico. L’NFL reagì immediatamente e decise di multare le squadre i cui componenti non fossero rimasti in piedi durante l’esecuzione dell’inno. Il clamore suscitato dalla vicenda fu tale che sulla questione intervenne direttamente il presidente Trump che, il 22 settembre 2017, durante un comizio in Alabama dichiarò che sarebbe stato felicissimo di vedere i proprietari delle squadre licenziare i giocatori “colpevoli di non onorare il proprio paese”.
Kaepernick pagò un prezzo molto alto per la sua protesta: dal 2017, dopo che il suo contratto con i San Francisco 49ers fu rescisso, non fu più ingaggiato da nessun’altra squadra. Secondo gli esperti, l’assenza di offerte delle squadre NFL a Kaepernick non avrebbe un riscontro nelle effettive potenzialità dell’atleta. Spesso gli erano preferiti giocatori di livello inferiore, ma liberi dal peso delle proteste.
In questi giorni, la silenziosa obiezione genuflessa, un’eco alla causa della morte di Floyd, ha pervaso la coscienza americana ed è di nuovo al centro di un momento turbolento, con una forza ritrovata. “Inginocchiarsi è sia un atto di sfida, di resistenza, di rispetto, ma anche un modo di onorare la vita perduta“, ha dichiarato Chad Williams, presidente del Dipartimento di Studi Africani e Afroamericani della Brandeis University. “È un gesto chiaro e genuino. La sua semplicità lo carica di un potere simbolico che tuttora persiste”. Come fa la controversia che lo circonda.
A partire dal 2016, si è scatenata uno contro-protesta, spronata in gran parte dal presidente Trump, che considera Kaepernick e il gruppo prevalentemente afro-americano di giocatori che ha seguito il suo esempio, come non patriottici. Questo punto di vista persiste. Il quarterback dei New Orleans Saints, Drew Brees, quando gli è stato chiesto il suo parere in merito al gesto di inginocchiarsi durante l’inno, ha affermato: “Non concorderò mai con nessuno che non rispetti la bandiera degli Stati Uniti d’America”.
In un momento in cui gli atleti di tutto il mondo dello sport si sono uniti in risposta alle ingiustizie raziali, dopo un’ingente ondata di critiche anche da parte dei suoi stessi compagni di squadra, Brees ha formulato le sue scuse esprimendo il suo sostegno alla protesta. Le scuse sono arrivate anche da Roger Goodell, commissario della NFL, pur senza citare Kaepernick. «Ammetto di aver sbagliato a non ascoltare prima i giocatori della NFL e a non incoraggiarli a parlare apertamente e a protestare in modo pacifico. Noi, la National Football League, pensiamo che le vite dei neri siano importanti», ha detto Gooddell, ripetendo lo slogan del movimento per i diritti dei neri, Black lives matter.
Nonostante la rinata notorietà della sua protesta, Kaepernick è rimasto pubblicamente silenzioso al riguardo. Di lui ha parlato Tommie Smith, colui che per primo, levando il pugno al cielo, tramutò lo sport in un palcoscenico di protesta contro il razzismo. “Gli ho parlato una volta di persona e ci scambiamo parecchi messaggi” ha detto Smith il 13 giugno in un’intervista, “Ma non posso dire dove si trova perché si sta muovendo costantemente cercando di sostenere la protesta da dietro le quinte, organizza discorsi e programmi. Sono stato molto contento di vedere il Commissario Goodell dichiarare ciò che avrebbe dovuto fare anni fa. Tutto ciò è costato a Colin la sua carriera professionale”.
Inginocchiarsi non è altro che un semplice gesto, ma le opinioni sfacciate e controverse su di esso sono uno specchio della complessità del problema raziale in America. Le sfumature di cui questo simbolo pragmatico è pregno sono molteplici. Appoggiare un ginocchio a terra può porre fine a una carriera, può condannare a morte un uomo innocente. Grazie a questo movimento, la genuflessione è divenuta un pacifico grido di giustizia: “Black lives matter!”.