La provocazione riuscita

equo-e-solidaledi Alfredo Somoza

Trent’anni fa, quando si comprava il caffè nicaraguense o il miele cileno nelle “botteghe del Terzo Mondo” si faceva una scelta politica, solidaristica e raramente di convenienza. Oggi le cose non stanno più proprio così.

Negli ultimi decenni tantissima acqua è passata sotto i ponti del commercio internazionale: sono cambiati i gusti dei consumatori e i Paesi di provenienza delle merci globali, eppure la nicchia rappresentata dal commercio equo e solidale è sempre presente. Anzi, è continuamente cresciuta anche in questi anni di crisi economica. Si tratta di un comparto che ha assunto come valori centrali la sostenibilità ambientale e sociale e che mette sul mercato prodotti di fascia qualitativa alta, il cui valore mondiale nel 2004 era di 850 milioni di euro e dieci anni dopo è salito a 5,5 miliardi. Una storia di successo ancora piccola, rispetto al commercio globale, ma che beneficia in modo sensibile 1.200.000 contadini e 200.000 lavoratori generici.

I prodotti equi e solidali “parlano” al consumatore, raccontando storie di lotta e di superamento delle difficoltà. Storie che spiegano come l’unione tra i piccoli agricoltori faccia la forza e come la scommessa sul biologico, alla lunga, paghi in termini di salute, tanto per i contadini quanto per i consumatori. Sono prodotti in grado di “formare” chi li acquista, insomma, anche se di solito vengono apprezzati soprattutto dai consumatori già formati. Ed è questo uno dei limiti storici dei produttori e dei rivenditori dell’equo e solidale: la difficoltà a spiegare ai consumatori generici la differenza tra il loro caffè e quello degli altri.

Qualche anno fa, quando nei supermercati di alcune catene della grande distribuzione furono allestiti i primi scaffali dedicati a questi prodotti, le botteghe che fino ad allora erano gli unici punti vendita protestarono dicendo che questa mossa avrebbe banalizzato l’equo e solidale: nei supermercati, infatti, nessuno avrebbe spiegato la storia nascosta dietro l’etichetta, come invece fanno i volontari delle botteghe. La critica era in parte motivata, ma non prendeva in considerazione il fatto che il prodotto equo e solidale esposto sullo scaffale della Coop o di Esselunga arriva davanti agli occhi del consumatore generico, e non solo di quello già sensibilizzato che frequenta la bottega.

Oggi queste critiche sono state superate, e proprio la grande distribuzione ha fatto la differenza in termini di fatturato. Tuttavia stiamo sempre parlando di una nicchia che, se anche crescesse per i prossimi 30 anni agli ottimi ritmi attuali, nicchia rimarrebbe.

Quanto è stato rilevante, allora, l’impatto dei principi del commercio equo e solidale sul commercio senza aggettivi? La risposta potrebbe essere “poco” ma anche “molto”. Nel senso che oggi c’è indubbiamente una maggiore attenzione sui temi ambientali e sociali. Per esempio, al di là della normativa di legge, molte aziende hanno adottato l’etichetta trasparente, che entra nel merito anche della qualità o delle condizioni dei lavoratori. Alcuni grandi marchi, come l’italiana Lavazza o i francesi di Carrefour, hanno creato linee di prodotti con caratteristiche, spesso certificate, di commercio equo e solidale. Insomma, c’è stato un moderato travaso di buone pratiche verso l’industria tradizionale, ma soprattutto c’è stato un forte lavoro di sensibilizzazione del consumatore.

Tendenzialmente il consumatore odierno sta attento soprattutto al prezzo e alla qualità, ma spesso cerca anche garanzie in materia ambientale o di diritti. È un consumatore che, anche se non acquista il prodotto del commercio equo e solidale, lo apprezza e riconosce in esso un valore qualitativo: valore che è dato da elementi oggettivi, per esempio la scelta del biologico, ma anche da valutazioni sulle politiche ambientali o lavorative. Per molti aspetti il commercio equo e solidale anticipa il concetto di qualità del futuro. Non più soltanto di tipo organolettico o sanitario, ma anche ricco di indicatori per misurare la sostenibilità ambientale e sociale del prodotto.

La “provocazione” è servita, dunque, non perché oggi il commercio mondiale sia ancora cambiato, ma perché ha seminato il dubbio e ha fornito a una massa sempre più grande di consumatori gli elementi necessari per esigere prodotti (non necessariamente “equi e solidali”) che facciano bene alla natura e a noi.

Se è vera l’affermazione secondo la quale il consumatore vota attraverso la scelta di ciò che compra, il “partito” della sostenibilità è sicuramente una piccola forza in crescita, e alimenta un’egemonia culturale che va ben oltre i suoi numeri di fatturato.

Alfredo Somoza

image_pdfVersione stampabile