La Rivoluzione di Frida Kahlo, l’artista del dolore

di Daniela Annaro

Sopracciglia folte, ben disegnate; immancabili baffetti; labbra carnose e seducenti; occhi tristi, pieni di sofferenza. Frida Kahlo, la pittrice messicana (1907-1954) sprigiona forza e vitalità raccontando sulle sue tele le pene fisiche subite per tutta la vita, ma, nel contempo, la sua capacità di resistere, sopportare la disabilità fisica e andare oltre. Un mito della pittura e della resilienza.

La mostra al MUDEC, il Museo delle Culture di Milano (via Tortona, 56 fino al 3 giugno) lo celebra al di là delle proprie intenzioni. Per la prima volta propone una serie di documenti, lettere, disegni, tantissime fotografie sue e di lei. Tele mai viste in Italia, come  Autoritratto con scimmia, arrivato dalla raccolta Albright-Knox di Buffalo insieme al dipinto Nina col collar. Il curatore Diego Sileo ha recuperato tutti questi materiali inediti, almeno per il nostro paese,  dopo l’apertura  nel 2007, a cento anni dalla nascita di Frida dell’archivio di Diego Rivera, pittore e marito della Kahlo. Oltre alla preziosa e inedita documentazione, sono riemersi abiti, protesi, oggetti tra i più svariati  raccolti nel corso dei 47 anni di vita della pittrice messicana. Materiali in gran parte in mostra che amplificano il mito  di Frida e che legano  ulteriormente la comprensione della sua opera al dato biografico.

Frida Kahlo diceva di essere nata nel 1910, anno in cui inizia la sanguinosa  rivoluzione messicana, (900.000 sono i morti) perché ne condivide i principi e si sente parte di quel processo storico. La malattia la segna subito: sin dalla nascita è affetta da schiena bifida, a sei anni ha la poliomelite che le compromette la gamba destra, a diciotto subisce un devastante incidente stradale che la costringe a rimanere a letto per un lungo periodo. E’ lì che inizia a disegnare e dipingere. 

Dipingo me stessa perché è ciò che conosco meglio e perché mi sento molto sola, risponde a chi le chiede ragione dei suoi innumerevoli autoritratti.

Che sia questo  o meno il motivo,  nelle sue tele si ritrova sempre il grande dolore che l’affligge e, nel contempo, la rende unica nella sua straordinaria capacità di non rassegnarsi. I suoi contemporanei la ricordano come una donna allegra, anzi. “L’incarnazione dell’allegria”. Intorno a lei, c’è un gran fermento politico e culturale. Nel 1917, mentre a Mosca si fa la Rivoluzione, a Città del Messico, dove lei vive, si firma la prima Costituzione al mondo che riconosce garanzie e diritti ai lavoratori. Questo evento straordinario attira uomini della cultura e politici da tutto il pianeta: Antonin Artaud, André Breton, Tina Modotti e poi Leon Trotsky , con cui Frida avrà una relazione, accorrono e condividono quella stagione straordinaria che produce un movimento di artisti chiamati dal governo a dipingere i muri degli edifici pubblici.

Tra questi pittori anche Diego Rivera a cui Frida si rivolge per avere un parere – lei autodidatta- sui suoi primi disegni. Nel 1929, si sposano: lei ha ventidue anni, lui quarantadue.  Una relazione tormentata, fatta di tradimenti reciproci, di aborti, di separazione (un anno da divorziati), Rivera ha anche un legame con l’amatissima  sorella Cristina, lei non disdegna flirt con donne. Li unisce però un grandissimo amore, una passione ardente che sicuramente aiuta Frida ad affrontare le difficoltà fisiche del corpo che la imprigiona.

Ma sino a un certo punto: fino a quando sopporta quello  stesso corpo che le dà la possibilità di essere e apparire unica, come una dea. Più di ogni altro mortale lei comprende che la vita più che un evento incontrollabile va goduta e vissuta fino in fondo. Cosa che lei stessa fa: Viva la Vida è il titolo la sua ultima opera.  Due anni prima, le sue condizioni fisiche sono ulteriormente peggiorate come il suo umore, tanto da non voler vedere nessuno neanche Diego.

“Abbraccio amorevole dell’universo, la terra (il Messico), Diego, io e il signor Xolotl”

La piccola donna messicana, la grande artista dalla schiena distrutta il 13 luglio 1954 muore. Sul referto si legge:  embolia polmonare, ma nessun a tutt’oggi può escludere che abbia assunto un cocktail mortale di farmaci e droga. 

 

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