La Scala apre con “Tosca”

di Marco Riboldi

Come lo scorso anno, una breve presentazione, con la modesta preparazione dell’appassionato, non certo con la competenza dell’esperto che non sono.

Grande apertura quest’anno alla Scala con “Tosca”, di Giacomo Puccini, su libretto di Illica e Giacosa ispirato ad un dramma di Sardou, rappresentata per la prima volta, dopo una lunga gestazione, nel gennaio del 1900 a Roma.

Con quest’opera Puccini matura ulteriormente il suo stile: se da un lato ci sono molti elementi che fanno pensare al filone “verista” che all’epoca aveva suscitato grande interesse in Italia e nel mondo, dall’altro troviamo in questo lavoro una drammaticità che lo rende tragico ed eroico insieme.

Si intuisce la riflessione pucciniana sulla musica di Wagner: il metodo del “leitmotiv”, la frase musicale che caratterizza situazioni o personaggi e che ritorna più volte nell’opera, trova qui una sua compiuta realizzazione.

Come sempre, Puccini pone grande attenzione anche alla precisione scenica e ad una rappresentazione che avvinca lo spettatore: primo e terzo atto sono simmetrici, con arie iniziali, duetto e soluzione finale “forte”. Nel secondo atto, dalle tinte decisamente forti, si trova come una pausa la splendida aria di Tosca,”Vissi d’Arte”, che racconta tutta la passione, la religiosità, la disperazione del personaggio.

Scarpia poi, il perfido capo della polizia, è un personaggio straordinario, che irrompe in scena portando con sé la tragicità del Male, con una autorevolezza che richiede un cantante di grande spessore interpretativo.

Anche tenore e soprano hanno la possibilità di mostrare le loro doti, pur in una partitura con una dimensione sinfonica forte, che accompagna lo spettatore lungo un cammino appassionante e molto gratificante per l’ascolto.

I personaggi minori, come il sacrestano o i poliziotti, sono anch’essi scolpiti con grande attenzione sia scenica che musicale.

ATTO PRIMO. Roma, nel 1800: da poco è caduta la Repubblica Romana, nata a imitazione della repubblica giacobina francese, su impulso delle battaglie napoleoniche.

Assistiamo all’arrivo dell’evaso Cesare Angelotti, già Console della Repubblica Romana, nella chiesa di S. Andrea della Valle, dove il pittore Cavaradossi sta dipingendo un quadro destinato alla basilica, nel quale ha ritratto, a sua insaputa, la sorella di Angelotti (la contessa Attavanti) che frequentava la chiesa.

Angelotti si nasconde in una cappella perchè entra il sagrestano, il quale si lamenta per il lavoro e soprattutto rimprovera il pittore, anch’egli arrivato, per aver osato ritrarre la bella signora in un quadro destinato alla chiesa. Qui troviamo la prima romanza celebre dell’opera (“Recondita armonia”, cui fa da contrasto il borbottio del sacrista “Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi”) che consente al tenore un inizio strappa-applausi.

Quando il sacrestano se ne va, Angelotti e Cavaradossi si incontrano e il pittore, che condivide le idee politiche del primo, concorda con lui un piano di fuga. Ma i due sono interrotti dall’arrivo di Tosca che dà inizio un duetto nel quale rivela tutta la sua appassionata gelosia, che a stento Mario riesce a contenere (aria “ Non la sospiri la nostra casetta” di Tosca e “Qual occhio al mondo “ di Mario).

Uscita Tosca, Angelotti e Cavaradossi decidono di far rifugiare il fuggiasco in una villetta di Mario e se ne vanno, portando con sé i vestiti femminili che la sorella dell’Angelotti aveva preparato nella cappella per consentire al fratello di non essere riconosciuto. Dimenticano però un ventaglio, che resta in chiesa.

Mentre un colpo di cannone annuncia la avvenuta fuga da Castel Sant’Angelo del prigioniero Angelotti, giunge la notizia (falsa) della sconfitta delle truppe napoleoniche a Marengo e questo rende euforico il sagrestano, che prepara i bambini della cantoria per un solenne “Te Deum” di ringraziamento.

Mentre i bambini fanno un po’ di confusione, irrompe in scena il barone Scarpia, capo della polizia del papa, che sta cercando Angelotti.

Sospettando di Cavaradossi, quando vede Tosca tornare in chiesa per annunciare a Mario che quella sera non potranno vedersi perché convocata a Palazzo Farnese per cantare in occasione della presunta sconfitta napoleonica (“E io venivo a lui tutta dogliosa”) riesce a suscitare la sua gelosia, utilizzando il ventaglio dimenticato (“E’ arnese di pittore questo?”) Tosca se ne va alla ricerca di Mario e Scarpia la fa seguire dai suoi sbirri (“Tre sbirri, una carrozza, presto” – “Vai, Tosca, nel tuo cuore si annida Scarpia”).

Il finale dell’atto, musicalmente e scenicamente possente, vede Scarpia proclamare il suo duplice desiderio: la fine di Cavaradossi e il possesso di Tosca (“L’uno al capestro, l’altra tra le mie braccia”). Al suo canto si sovrappone, in un contrasto che dice molto, il solenne “Te Deum” cantato in processione (Qui, secondo le anticipazioni, il maestro Chailly dovrebbe aver ripreso un tema musicale modificato dopo la prima), che per un attimo rende Scarpia cosciente del suo stato d’animo. E sul suo grido “Tosca, tu mi fai dimenticare Dio” si chiude l’atto.

Il direttore d’orchestra Riccardo Chailly

Il SECONDO ATTO è ambientato a Palazzo Farnese dove, mentre si svolge la festa, Scarpia sta facendo interrogare Cavaradossi, perché gli riveli il nascondiglio di Angelotti.

Tosca, convocata, sente le grida di Mario, posto sotto tortura: non resistendo allo strazio, rivela lei che Angelotti è nascosto in pozzo nella villetta di Mario.

Mentre gli sbirri vanno a catturare Angelotti, Scarpia fa entrare Cavaradossi che si sdegna per il tradimento di Tosca. In quel momento, giunge la notizia che la presunta sconfitta di Napoleone era falsa: è invece il generale francese ad aver vinto, nella battaglia tenutasi a Marengo.

Al grido di gioia di Cavaradossi (“Vittoria, vittoria”), Scarpia risponde spietato: il pittore penderà dalla forca accanto ad Angelotti, che si è suicidato per non cadere nelle mani degli sgherri di Scarpia e che verrà comunque esposto al patibolo.

E’ il momento più drammatico: alla sprezzante domanda su quanto voglia il barone per lasciare libero Cavaradossi, Scarpia risponde con la richiesta che Tosca gli si conceda. (“A bella donna non mi vendo a prezzo di moneta”).

Qui si dispiega il personaggio: non vuole amore, non gli importa. Egli vuole il dominio, il possesso.

La donna, affranta, alza al cielo una preghiera che è quasi una protesta: perché dopo una vita passata a dare gioia con l’arte e a fare beneficenza, Dio la remunera così? (“Vissi d’arte”). (Anche in questa parte dovremmo sentire qualche novità rispetto a quanto si è abituati, grazie alla ripresa di battute musicali abbandonate nel tempo).

Tosca dice a Scarpia di essere pronta a cedere: il perfido capo della polizia scrive un salvacondotto per consentire ai due amanti di lasciare Roma, poi chiama uno dei suoi fidi e gli ordina di fucilare Mario usando il trucco che già avevano in passato utilizzato con un altro prigioniero. La povera Tosca crede che tale trucco sia la fucilazione a salve, mentre in realtà Scarpia sta ordinando una autentica fucilazione.

Tutto sta per compiersi: Scarpia sta per portare a termine il suo piano malvagio (l’uno al capestro, l’altra tra le mie braccia), ma Tosca, afferrato un coltello, lo uccide. (posti un crocifisso sul corpo di Scarpia e due candelabri ai lati, “Davanti a lui tremava tutta Roma”, esclama contemplando il cadavere, con un effetto scenico riuscitissimo).

Il TERZO ATTO si apre con un momento idilliaco: un pastorello canta in lontananza una canzone in romanesco. Cavaradossi in carcere tenta di scrivere una lettera a Tosca, travolto dai ricordi dei loro momenti di amore (“E lucevan le stelle”).

Tosca arriva inaspettatamente e inizia il duetto, nel quale la donna spiega a Mario gli avvenimenti, il piano di fuga e gli raccomanda di fingere bene la morte. (“Il tuo sangue o il mio amore volea”; “O dolci mani”). A fucilazione avvenuta la donna tenta invano di chiamare Mario e si rende conto dell’inganno. Intanto gli sbirri, trovato il cadavere di Scarpia, la inseguono, ma la donna raggiunge gli spalti di Castel Sant’Angelo e si getta nel vuoto con l’ultimo grido (“O Scarpia, davanti a Dio!”).

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