“Devi ascoltare le mie spiegazioni, non fare copia e incolla da Wikipedia durante la verifica!”. “Ok, stai leggendo a pagina 203 riga 3. Ora, prova a dirlo con le tue parole. E attiva la videocamera, per favore: ti sto interrogando!”. “Com’è possibile che riesci a collegarti in video lezione ma non riesci a inviarmi i compiti per email?”. Sono frasi che, da due mesi a questa parte, mi trovo a pronunciare, o scrivere, con una frequenza che mai avrei immaginato.
Insegno in una scuola secondaria di I grado (una scuola media, per intenderci), i miei alunni hanno circa 12 anni e, come me, sono stati travolti dallo tsunami ‘didattica a distanza’.
Compiti via email, video lezioni in presenza e video spiegazioni inviate come messaggi in bottiglia. Computer condivisi con i fratelli maggiori, ma anche con i genitori alle prese con lo smart working.
Genitori, anche loro, investiti da uno tsunami doppio, triplo, quadruplo etc. a seconda del numero dei figli.
E poi ci siamo noi insegnanti. Insegnanti da una vita, insegnanti all’ultimo anno prima della pensione, insegnanti precari, insegnanti con la famiglia lontana, insegnanti che hanno appena iniziato a fare questo lavoro. Nessuno se lo sarebbe immaginato, di dover fare ‘l’insegnante a distanza’.
A me sembra di lavorare il doppio di prima, eppure il programma rimane indietro, i voti mancano. Devono esserci anche quelli, alla fine dell’anno. La scuola senza i voti non può esistere ormai. Già, ma che cosa valutare?
Personalmente, più che valutare a distanza, mi sembra di stare imparando a valutare le distanze.
Passo il mio tempo a inviare messaggi ai miei alunni e ai loro genitori. A cercare di recuperare una ‘relazione’ che, insegnano tutti i manuali di pedagogia, “è il punto di partenza di ogni azione educativa”. Un punto di partenza a cui ‘arrivare’ non mi è mai sembrato così difficile.
Eppure ogni risposta è una conquista, ogni email arrivata mi strappa un sorriso, ogni compito eseguito un sospiro di sollievo, ogni domanda posta da un ragazzino in video lezione, anche a videocamera spenta, una piccola esultanza del cuore. “Ce l’ho fatta, stanno reagendo, ci sono, stiamo dialogando”, penso ogni volta.
Mi sorprendo, a volte, a fare il tifo per i miei ragazzi distanti.
Per quelli che hanno i genitori stranieri, oppure genitori italiani che nelle email scrivono le A senza acca e proffessoressa con due effe, e che alla fine riescono a mandarmi un compito su dieci che avevo assegnati.
Per quelli che non si fanno vedere in video e quando accendono l’audio, in sottofondo, senti pianti di bambini e un gran caos, e te li immagini nella stessa stanza con una quantità indefinibile di ‘congiunti’ , e alla fine non insisti nemmeno tanto sulla questione della videocamera.
Per quelli che non si sono fatti sentire per un mese e poi la mamma ti scrive per email che il nonno è morto e tu hai negli occhi le immagini di ospedali e terapie intensive viste in tv, e non te la senti di rispondere che la morte del nonno non è una giustificazione per non fare i compiti per un mese.
Per quelli con i genitori separati che hanno dimenticato i compiti sul computer del papà. Per quelli che un computer in casa nemmeno lo avevano e ora cercano di capire come funziona quell’oggetto mai visto prima. Quell’oggetto che la scuola ha mandato proprio per cercare di ‘ridurre le distanze’.
Per quelli bravi, che a ogni domanda scrivono venti righe di risposta quando ne basterebbero due. E capisci che loro, quelli bravi, hanno bisogno di scriverle tutte quelle venti righe, che hanno bisogno che tu sottolinei che hanno fatto proprio un bel lavoro e che sei molto contenta di loro.
Soprattutto, faccio il tifo per l’adolescenza – interrotta – di tutti loro. Loro che, dopo le vacanze di Natale, mi sembravano diventati già più alti e più alte. Loro che venivano a chiedermi gli assorbenti all’intervallo, per fare invidia alle compagne ancora senza mestruazioni. Loro che mi raccontavano, tutti fieri, di essersi rasati le guance per la prima volta.
Loro che, a dodici, tredici, quattordici anni, sono stati costretti, all’improvviso, a far entrare la scuola nella propria cameretta.
Si può provare a insegnare e imparare a distanza. Ma tutta la scuola, in una stanza, proprio non riesce a entrarci.
Dalla stanza, infinita è la distanza dal compagno di banco con cui chiacchierare durante le spiegazioni. La distanza dalla ragazzina che si era abituati a vedere tutte le mattine sull’autobus e per cui si aveva una cotta tremenda. La distanza dalle partite di calcio in cortile dopo la mensa. La distanza dal suono della campanella dell’intervallo, che non esiste nemmeno più.
La scuola in una stanza proprio non ci sta. Ci sta solo una grande distanza.
Un’insegnante