La sfida polare del cambiamento climatico

di Alfredo Somoza

Le potenze sono tali perché riescono a “vedere lungo” e ad anticipare gli altri Paesi. In queste settimane, malgrado la pandemia in corso, nel gioco delle potenze ci sono state importanti novità su diversi fronti. Dalla guerra del petrolio, che non è soltanto una questione di prezzi ma di protagonisti del mercato futuro, alla corsa all’Artico.

Qualche mese fa Donald Trump si è lasciato sfuggire una battuta in merito all’acquisto della Groenlandia seguendo il copione del 1867, quando gli USA comprarono l’Alaska dalla Russia per 7,2 milioni di dollari dell’epoca. La reazione della Danimarca, Paese al quale appartiene la Groenlandia, pur con grandi autonomie, è stata di indignazione. Quella gigantesca isola nordamericana, colonizzata dai vichinghi nel Medioevo e oggi popolata da 56.000 inuit, è uscita dal dimenticatoio grazie al cambiamento climatico. Non soltanto sta tornando la “terra verde” che fu apprezzata dagli agricoltori vichinghi, ma lo scioglimento dei ghiacci che coprono la sua superficie sta svelando importanti giacimenti di terre rare, uranio, idrocarburi, oro. Ma, in realtà, ciò che più pesa nel rinnovato interesse strategico per la Groenlandia sono le nuove rotte commerciali artiche.

La Cina sta ipotizzando una “Via della Seta marittima polare che passa proprio dalle acque della Groenlandia, ma anche Russia e Stati Uniti sono interessati. Nei giorni scorsi Washington ha siglato un accordo di cooperazione economica con il governo autonomo groenlandese del valore di 11 milioni di euro destinati all’estrazione di minerali e al turismo. Poca cosa, tra l’altro sostenuta dal governo danese socialdemocratico, ma abbastanza per far infuriare le forze politiche dell’opposizione, dalla destra estrema ai socialisti.

L’accordo siglato con gli Stati Uniti rappresenta un segnale a Cina e Russia, che da anni tentano di costruire relazioni strette con la Groenlandia. La logica degli Stati Uniti è semplice: quell’isola, geograficamente americana, non può entrare nell’orbita delle potenze antagoniste. La presenza sull’isola si rinforzerà con l’apertura di un consolato degli USA nella capitale Nuuk, che si aggiungerà alla storica base militare Thule, al Nord, e a un’altra in costruzione a sud.

Il futuro della Groenlandia non potrà che essere quello di una pedina nel “grande gioco” mondiale che ci attende. Tornerà di attualità il controllo dei mari, laddove essi rappresentano passaggi chiave per il traffico di merci e scenari strategici per future guerre.

Kalaallit Nunaat”, la “terra degli uomini” in lingua groenlandese, rischia ora di condividere il triste destino delle altre frontiere estreme della natura, diventate all’improvviso appetibili per corporation e potenze. Come l’Amazzonia, il delta del Niger o la Patagonia cilena, anche la patria degli Inuit conoscerà sfruttamento selvaggio delle risorse, contaminazione ambientale, sudditanza agli interessi stranieri. Per questo motivo parlarne, far conoscere luoghi così reconditi e da sempre dimenticati oggi diventa importante.

Se qualcosa cambierà nel nostro modello di sviluppo, come tutti ora auspicano, la prova generale avverrà in queste regioni lontanissime. Terre messe in pericolo perché imprescindibili per la globalizzazione odierna. Terre che diventano appetibili in una logica che non riconosce il valore indispensabile della sostenibilità.

Se si aprirà la “Via Polare della Seta”, o se saranno gli Stati Uniti o la Russia a sfruttare la Groenlandia, alla fine dei conti ciò avverrà a causa del cambiamento climatico, che sta creando problemi enormi e noti a tutti, anche se coloro che potrebbero attuare politiche per contrastarlo fanno finta di niente.

Attualmente sono 56.000 gli inuit, gli abitanti della Groenlandia
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