di Alfredo Somoza
“Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste. E io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata!” I versi della poetessa Emma Lazarus scolpiti sul basamento della Statua della Libertà, con la quale la Francia rese omaggio alla grande nazione americana nel 1886, sono una pietra miliare della storia americana. Gli Stati Uniti come terra promessa, rifugio dei perseguitati e dei miserabili. Terra di opportunità per tutti – con l’eccezione dei nativi americani e, fino a tempi recenti, degli afroamericani – è uno degli elementi che più hanno definito l’identità degli Stati Uniti, e in generale di tutti i Paesi del continente. Se la cultura europea non ha un vissuto storico di inclusione, ma piuttosto di espulsione, per quella americana vale l’esatto contrario. Per questo motivo oggi le nuove restrizioni in materia migratoria introdotte da Donald Trump fanno tanto scalpore.
Non ci sarebbe storia statunitense senza il contributo dei milioni di uomini e donne che si riversarono nel continente americano, fuggiaschi dalle carestie come i Ford, i Reagan o i Kennedy, dalle persecuzioni per motivi religiosi come i padri fondatori, o più semplicemente in qualità di migranti economici come i Bush o i Trump.
Paese geloso del suo ius soli, ma che oggi separa i padri dai figli dividendo famiglie che, dopo avere accarezzato il sogno americano, si ritrovano disperse tra due Paesi. Arrivando fino all’aberrazione dei veri e propri campi di detenzione per minorenni strappati alle madri durante l’attraversamento del confine sud.
Ed è proprio quel lungo confine con il Messico il punto debole nella linea Maginot immaginata dall’attuale amministrazione. Dal confine lungo il Río Bravo e dai deserti si riversano ogni giorno le vittime delle politiche fallimentari degli Stati Uniti. Si tratta di profughi a tutti gli effetti, che scappano dalle guerre civili striscianti che colpiscono il Messico, il Guatemala, l’Honduras, El Salvador. Paesi centroamericani, quelli delle banane, dove Washington ha dettato legge per decenni, imponendo regimi, finanziando organizzazioni paramilitari, coprendo eccidi e genocidi. Paesi sconvolti dall’azione impunita delle maras, le gang originarie della California, dove i profughi salvadoregni crearono gruppi di autodifesa diventati poi bande criminali, successivamente esportate in Centroamerica con le politiche di deportazione di George Bush.
Peggio ancora il caso del Messico. Un grande Paese che dopo la firma del Nafta, il mercato economico dell’America Settentrionale, è stato scelto per il passaggio della droga verso il grande mercato statunitense. Il potere militare e finanziario dei cartelli messicani è diventato pari o superiore a quello dello Stato. La guerra alla droga del presidente uscente Enrique Peña Nieto ha prodotto negli ultimi anni oltre 60.000 vittime e un numero imprecisato, si stima circa 100.000, di desaparecidos del narco. La situazione messicana fotografa il fallimento della DEA, la Drug Enforcement Administration, e della CIA, che hanno voluto gestire il narcotraffico per tenerlo sotto controllo, spesso utilizzandolo anche per loschi motivi politici. Basta vedere uno dei tanti serial di Netflix sul fenomeno per capire come interi Stati siano stati consegnati alle forze del crimine che non solo uccidono, ma corrompono fino alle fondamenta la vita pubblica dei Paesi dove operano.
Il Mediterraneo degli Stati Uniti è largo pochi metri e per questo poco difendibile. Come per l’Europa rispetto all’Africa, l’unica prevenzione sarebbe favorire lo sviluppo economico e la lotta al crimine organizzato.
Si punta invece sui muri e su politiche disumane, che hanno portato la stessa moglie del presidente Donald Trump a prendere le distanze. In un Paese dove è impossibile appellarsi al sangue o alla razza per distinguere chi è dentro da chi è fuori, l’ultima spiaggia è caricare di valenze negative il concetto di clandestino. Di quelle persone cioè che fuggono rischiando la propria vita e quella dei propri figli, di quelli che lavorano in nero nell’agricoltura o nei servizi, di quelli che vorrebbero a tutti i costi dimenticare l’incubo delle loro vite passate. Come i Ford, come i Kennedy, come i Trump. Ma quelli erano altri tempi. La Statua della Libertà simboleggia la Ragione che trionfa: oggi purtroppo molto di meno.