di Francesca Radaelli
“Qui su l’arida schiena
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null’altro allegra arbor né fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi,
odorata ginestra,
contenta dei deserti”.
È dedicata alla ginestra, la pianta dall’intenso colore giallo che ‘resiste’ sulle pendici aride del Vesuvio, una delle ultime poesie di Giacomo Leopardi. Il grande poeta di Recanati si spense a Napoli il 14 giugno del 1837, mentre era ospite a Villa Ferrigni, nella cittadina di Torre del Greco, nella casa dell’amico Antonio Ranieri e della sorella Paolina.
In città era scoppiata un’epidemia di colera, ma le spoglie del poeta (almeno secondo la versione ufficiale) non furono deposte in una fossa comune come avrebbero prescritto le severe norme igieniche in vigore, bensì vennero collocate nella chiesa di San Vitale, da dove saranno poi traslate nel parco Virgiliano di Napoli in epoca fascista. Giacomo Leopardi aveva 39 anni quando morì e un fisico duramente provato da diverse malattie alle ossa e alla schiena che lo avevano reso gobbo e deforme.
Malattie forse dovute agli anni di ‘studio matto e disperatissimo’ in posizioni non proprio ergonomiche all’interno della biblioteca del padre, il conte Monaldo, a Recanati.

Si concludeva dunque a Napoli la parabola di un uomo, un filosofo, un poeta, che proprio a partire dalla biblioteca di Recanati aveva intrapreso un viaggio nel tempo, nello spazio, nei generi letterari, peregrinando da una teoria filosofica all’altra.
Studiò gli antichi classici e cercò di confrontarsi con gli intellettuali suoi contemporanei nelle principali città di cultura italiane, da Roma a Bologna è Firenze. Teorizzò il primato della poesia, poi quello della filosofia e della ragione, è arrivò , a un certo punto della sua vita, a smettere di scrivere versi, ritenendoli semplici e ingannevoli illusioni.
Considerò la natura prima madre benigna, poi matrigna crudele. Diede la colpa dell’infelicità umana inizialmente alla storia e ai mali del proprio tempo, poi alla condizione stessa dell’uomo, secondo quel concetto di ‘pessimismo cosmico’ che non lascia scampo a nessun essere umano in nessuna epoca storica: tutti, arriva ad affermare Leopardi, siamo condannati all’infelicità. Diede corpo ed espressione alle sue teorie attraverso i versi dolenti di A Silvia e quelli profondi de L’infinito, scrisse grandi e piccoli idilli poetici, ma anche veri e propri capolavori della prosa filosofica come Le Operette Morali.
Fece confluire in tutta la sua produzione letteraria non solo l’immensa cultura ed erudizione conquistata in lunghe giornate di studio, ma anche la sofferta consapevolezza dell’impossibilità di essere felice. Non certo per via del proprio aspetto fisico che, in ogni caso, gli precluse ogni possibilità di vedere corrisposto l’amore per Fanny Targioni Tozzetti, la donna a cui sono dedicati i componimenti del ciclo di Aspasia. No, gli uomini tutti, in quanto tali, non possono che essere infelici, Leopardi ne era convinto.
Ma quando quest’uomo infelice, al termine del suo viaggio, giunse a Napoli, facendo spaziare lo sguardo verso il gigantesco Vesuvio distruttore di antiche città, potè vedere sulle pendici aride del vulcano quelle macchioline gialle, i fiori delle ginestre che resistevano impertinenti, nonostante l’aridità circostante.
Dando un pizzico di gioia agli occhi e profumando l’aria. E allora, forse, anche il pessimista senza speranza Leopardi si convinse che esiste comunque qualcosa in grado di consolarci, anche in uno scenario arido e desolato, qualcosa che magari di fronte alla storia o alla natura può piegarsi, ma che continua a resistere, senza spezzarsi, come un fiore giallo in un paesaggio vulcanico. La bellezza, la poesia, o forse più democraticamente la solidarietà e il calore umano. E proprio a questi ‘fiori del deserto’, alle gialle ginestre del Vesuvio, il grande Leopardi dedicò la poesia che costituisce il suo testamento.