di Francesca Radaelli
L’Africa ha sconfitto la polio. In tempi in cui i virus tornano a far paura al mondo, non può che essere una buona notizia.
L’annuncio è arrivato qualche giorno fa direttamente dal direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, di nazionalità etiope, con tutte le caratteristiche dell’ufficialità. I 47 Stati della regione africana membri dell’OMS sono liberi dal virus: a certificarlo è stato l’Africa Regional Certification Commission (Arcc), organismo incaricato di monitorare la malattia. Sono passati ben quattro anni senza un solo caso di polio selvatico: l’ultimo è stato rilevato in Nigeria nel 2016. A oggi oltre il 95% della popolazione del continente è stata vaccinata.
Sono passati oltre vent’anni dal 1996, quando Nelson Mandela lanciò la campagna Kick Polio Out of Africa e i capi di Stato africani si impegnarono a eradicare il virus. All’epoca erano circa 75.000 i bambini africani che ogni anno rimanevano paralizzati a causa della malattia.
Ora il virus della polio continua a circolare solo in altri due Paesi nel mondo: in Afghanistan e Pakistan.
La poliomielite è una malattia infettiva causata da tre tipi di polio-virus, invade il sistema nervoso nel giro di poche ore, distrugge le cellule neurali colpite e provoca una paralisi che può diventare, nei casi più gravi, totale. Il virus colpisce soprattutto i bambini sotto i cinque anni di età e si trasmette anche attraverso individui asintomatici. Chi si ammala in forma grave riporta spesso una paralisi degli arti inferiori. A causa delle epidemie di polio, milioni di bambini sono stati costretti costretti a passare tutta la vita con stampelle, sedia a rotelle, talvolta con il polmone d’acciaio.
Non esiste una cura per la malattia. A sconfiggerla prima in Europa e in America e ora anche in Africa sono state le campagne di vaccinazione di massa della popolazione.
Una zolletta di zucchero contro la polio
Una notizia forse altrettanto bella si può scoprire ripercorrendo la storia dell’ideatore del vaccino grazie a cui l’Africa si è liberata dalla polio: il medico americano Albert Sabin.
O meglio, l’ebreo polacco Abram Saperstein, nato nel 1906 nel ghetto di Białystok, città allora parte della Russia zarista. Naturalizzato americano nel 1930, dopo essere emigrato con la famiglia negli Stati Uniti, a metà degli anni Cinquanta, Sabin si trovò a tornare di nuovo in Europa Orientale. E tornò nei luoghi della sua infanzia proprio per sperimentare il vaccino anti polio che aveva sviluppato attraverso le sue ricerche.
Erano gli anni in cui, dopo una serie di gravi epidemie di poliomielite, il governo degli Stati Uniti aveva dato il via a una grande campagna di vaccinazioni di massa, scegliendo però di puntare sul vaccino sviluppato da un altro medico, Jonas Salk. Un vaccino composto da virus inattivato, ancora oggi utilizzato nelle regioni dove la malattia non è endemica (Italia compresa).
Eppure Sabin credeva di avere in mano una soluzione migliore, almeno per le condizioni dell’epoca, in cui la poliomielite si presentava con ondate epidemiche micidiali sia negli Stati Uniti che in Europa. La soluzione di Sabin era un vaccino composto da virus attenuato che, a differenza del suo concorrente, garantiva l’immunità totale dalla malattia, senza bisogno di ‘richiami’ successivi. E si assumeva in modo semplicissimo: per bocca, sopra una zolletta di zucchero.
Il ritorno in Est Europa
Erano i tempi della Guerra Fredda e l’Unione Sovietica propose a Sabin di continuare a sperimentare il vaccino sui propri territori. Fu così che il medico, ormai americano da anni, accettò di tornare in quella parte del mondo che aveva lasciato alle spalle trent’anni prima e su cui, nel frattempo, erano passate le devastazioni del secondo conflitto mondiale. Una guerra che lui, Sabin, aveva vissuto in prima persona, in Europa, ma con l’uniforme dell’esercito Usa. Una guerra che non aveva risparmiato nemmeno la sua famiglia.
I nomi delle due figliolette, del resto, non li aveva scelti a caso. Amy e Deborah: gli stessi nomi delle nipotine rimaste nel ghetto di Białystok, e uccise dalle SS naziste.
Non sappiamo con che pensieri tornò nel continente della sua infanzia, ormai diviso in due dalla famosa ‘cortina di ferro’. Sembra, peraltro, che il medico della zolletta di zucchero avesse un carattere burbero e scontroso, che forse contribuì non poco ad accendere la disputa scientifica con il rivale Salk.
Una disputa che avrebbe potuto trasformarsi nell’ennesimo scontro a distanza della Guerra Fredda. I Paesi dell’Urss, a partire dalla Cecoslovacchia, avviarono a loro volta la vaccinazione in massa della popolazione con il metodo Sabin. E fu un successo. Il vaccino funzionava, fece sparire la malattia in tutti i paesi in cui divenne obbligatorio: era più efficace di quello americano. E, alla fine, anche lo stesso governo degli Stati Uniti decise di adottarlo.
Il regalo del dottor Sabin
Eppure Sabin rifiutò di brevettarlo. Era burbero e scontroso, ma non gli interessava partecipare a una ‘guerra fredda dei vaccini’, né tantomeno arricchirsi vendendo il brevetto alle industrie farmaceutiche. Voleva che il prezzo rimanesse basso, perché il vaccino si potesse diffondere il più possibile. Quando morì, nel 1993, non era certo ricco. Ma aveva ottenuto il suo scopo.
“E’ il mio regalo a tutti i bambini del mondo”, disse una volta parlando del ‘suo’ vaccino. Forse pensava ai regali che non aveva avuto la possibilità di fare a Amy e Deborah, le nipotine mai conosciute, morte bambine nei campi di sterminio. Di certo, in cuor suo, sarebbe stato contento di essere riuscito a farne uno, a distanza di tanto tempo, ai piccoli abitanti di un continente che di regali, oggi, ne ha un bisogno disperato.