di Marco Riboldi
Sua Altezza Reale Emanuele Filiberto di Savoia, principe di Piemonte e di Venezia, ha ritenuto opportuno condannare, a distanza di qualche decennio, le leggi razziali promulgate e firmate dal suo avo, Vittorio Emanuele III. Meglio tardi che mai, si potrà dire, e in effetti le parole scritte dal quasi cinquantenne erede di Casa Savoia giungono tardive, ma se non altro precise nel parlare di una vergogna e di una macchia (non proprio l’unica) sul blasone degli ex sovrani d’Italia.
Il fatto mi incoraggia a continuare i miei scritti su razzismo e antisemitismo, esaminando, in breve, la situazione dell’antisemitismo in Italia negli anni del fascismo, della guerra e della Shoah.
La questione richiederebbe molte pagine, cosa evidentemente impossibile qui: occorrerà essere molto riassuntivi.
E allora partiamo dal 1938.
Dopo un lungo serpeggiare tra pagine di scrittori celebri e romanzi popolari, raffigurazioni caricaturali dei “negri selvaggi” (ricordiamo che da poco il fascismo aveva conquistato il suo impero in Etiopia) e degli Ebrei “avidi e dominatori del mondo”, film e cinegiornali di regime, il razzismo antisemita viene ufficializzato nel 1938, prima con il “Manifesto degli scienziati razzisti”, poi con la promulgazioni delle leggi antiebraiche.
Tali leggi, come noto, impedivano il matrimonio tra Ebrei ed “ariani”, eliminavano gli Ebrei dalle industrie, dai commerci, dai settori della pubblica amministrazione, ne limitavano le possibilità di proprietà immobiliari, ne ordinavano l’espulsione da scuole ed università.
Da queste leggi dilagò poi una infinita serie di disposizioni amministrative (ordinanze, circolari, disposizioni delle autorità locali e degli organi di governo delle più svariate associazioni) che con implacabile ferocia burocratica proibirono agli Ebrei di tutto: non potevano fare i portieri o gli amministratori di stabili, esercitare il commercio ambulante o vendere oggetti antichi, d’arte e carte da gioco, raccogliere metalli o tessuti, avere la licenza di pesca o noleggiare film, avere un lavoro qualsiasi negli alberghi, vendere o detenere apparecchi radio… e si potrebbe continuare a lungo ad elencare proibizioni che vennero via via estese.
Le circolari, questo micidiale strumento che chiunque abbia a che fare con la burocrazia statale teme, si susseguirono una dopo l’altra e chiusero ogni pertugio della società civile agli Ebrei.
Fermiamoci qui per una breve, dolorosa riflessione.
Quanti italiani per bene collaborarono, magari come piccole rotelle, a questo mostruoso ingranaggio? Quanti lessero, diffusero, applicarono questi ordini inesorabili della burocrazia fascista? Cosa si chiesero? Quali reazioni interiori ebbero?
E fin qui siamo alla indifferenza, già tanto esecrabile e che non intendo minimizzare.
Ma quanti italiani, per bene e non, ebbero dei vantaggi da tutto questo: quante famiglie videro con soddisfazione che un posto di lavoro di un ebreo si era liberato per un loro figlio? Quante botteghe e attività artigiane videro diminuire la concorrenza o addirittura ebbero l’occasione per comperare a prezzo di svendita l’attività (magari anche industriale e non da poco) di un concorrente ebreo? Quante cattedre scolastiche ed universitarie vennero assegnate, quanti posti da giornalista offerti al posto degli Ebrei espulsi?
E qui siamo già oltre l’indifferenza: siamo alla complicità interessata.
Proseguiamo.
Dal punto di vista istituzionale il regime fascista riorganizzò il Ministero degli Interni con la creazione di una “Direzione generale per la demografia e la Razza” che era incaricata di dirigere la politica razziale, e di un “Ufficio studi del problema della razza” presso il Ministero della Cultura popolare. Si operò poi un censimento generale degli Ebrei d’Italia, che evidenziò la presenza di circa 40.000 Ebrei italiani e circa 10.000 Ebrei stranieri. (stiamo cioè parlando di circa lo 0,1% della popolazione italiana, allora di circa 45 milioni di abitanti).
Visto che solo pochi anni prima Mussolini stesso parlava di inesistenza ed inconsistenza della questione ebraica in Italia, appare plausibile che sia stata la stretta alleanza con la Germania nazista a dare spazio alle forze antisemite presenti nella società italiana e nel Partito Nazionale Fascista.
Va però detto che storici importanti non hanno trovato prove di una pressione diretta.
L’autorevole testimonianza di Galeazzo Ciano – ministro degli Esteri e genero del duce – attribuisce a Mussolini in persona la stesura del “Manifesto della Razza”, poi firmato da un gruppo di scienziati, a riprova di una personale convinzione antisemita del capo del fascismo.
Tali forze si avvalevano di una campagna di stampa condotta da personaggi da tempo impegnati nel campo dell’antiebraismo.
Se tra i gerarchi del regime si segnalano soprattutto Bottai e Farinacci, rivestono particolare importanza tra i giornalisti Giovanni Preziosi, Paolo Orano e Telesio Interlandi. Quest’ultimo, in quel clima politico, trovò facilmente appoggi e finanziamenti per produrre, dopo molte altre iniziative giornalistiche ed editoriali passate, la rivista che diverrà il cuore della propaganda razzista ed antisemita in Italia “La difesa della razza”.
Prima di passare ad altro, ricordiamo qui i valorosi finanziatori di tale rivista: Banca Commerciale Italiana, Credito italiano, Banco di Sicilia, Soc. E. Breda, Officine Villar Perosa, assicurazioni RAS ed INA. ( mi piacerebbe sbagliarmi, ma temo che l’elenco sia, benché parziale, esatto: lo trovo nella pubblicazione “La menzogna della Razza” del Centro Furio Jesi. E’ un volume ricchissimo di notizie, studi e con un grande apparato iconografico, pubblicato nel 1995, ma ancora estremamente valido per uno studio).
Questa rivista (che, lo dico per i lettori della mia zona, si trova in collezione pressoché completa presso la Biblioteca Civica di Monza) aveva come segretario di redazione il futuro deputato e segretario del Movimento Sociale Italiano, Giorgio Almirante, che seguì lo sviluppo dell’antisemitismo fascista fino alla fine della Repubblica di Salò, dimenticandosene in seguito (e purtroppo se lo dimenticarono anche gli italiani).
La propaganda fascista seguiva la linea cosiddetta “biologica” del razzismo: si era Ebrei per sangue, non per religione, quindi per discendenza, anche se lontana e magari quasi dimenticata.
Come giustamente dice la senatrice Liliana Segre: si era “colpevoli di essere nati”.
La battaglia propagandistica era violenta e diffusa, sposandosi con il razzismo contro i “negri selvaggi” e il disprezzo per le nazioni “schiave degli interessi degli Ebrei” (Gran Bretagna e U.S.A. in primis).
Gli italiani, come detto, oscillavano tra indifferenza e collaborazione: il numero esiguo di Ebrei faceva sì che intere province non avessero diretta testimonianza delle azioni antisemite.
E’ un fatto che, frugando tra le testimonianze dell’epoca troviamo comportamenti contraddittori, che difficilmente possono tratteggiare un unico modello di comportamento dei civili e dei militari italiani (per esempio nella Francia del Sud gli Ebrei tendevano a stare nelle zone sotto il controllo militare italiano, meno attento alla questione razziale rispetto a quello tedesco).
Questo non deve però portare ad una frettolosa assoluzione collettiva nel mito degli “italiani brava gente”, di cui forse troppo ci siamo nutriti negli anni scorsi.
Come sopra detto, una bella riflessione su chi volgeva la testa e su chi trovava qualche misero ( e anche meno misero) interesse, non guasterebbe certo.
Proibizione di libri e giornali, esclusione di testi da biblioteche e librerie, sequestri e confische si susseguirono man mano che la situazione si inasprì a causa del conflitto e del sempre più vicino epilogo.
Venne infine la bufera.
Dal 1943 in poi, il predominio tedesco fa peggiorare in modo drammatico la situazione degli Ebrei italiani: iniziano le deportazioni verso i luoghi dello sterminio.
E iniziano le delazioni, le segnalazioni dietro compenso, le tragiche vicende che portarono nei campi di sterminio migliaia di italiani.
Ormai abbandonata ogni distinzione tra gli stessi Ebrei, precedentemente basata sul “sangue misto” o sulla conversione religiosa o sui meriti acquisiti in campo militare, fascisti e nazisti collaborarono, sia pur con diverso zelo, alla deportazione di circa 7000 Ebrei italiani, più un altro migliaio di cui non si ha notizia certa. Quasi tutti furono destinati ad Auschwitz, da cui tornò meno del 15%.
Sorte particolarmente avversa ebbero i bambini ( di età inferiore ai 14 anni): ne tornarono 25 su 776.
Sarebbe ingiusto negare che accanto ai fenomeni di indifferenza e di collaborazionismo, ampia fu la resistenza a questa brutale opera di sterminio.
Migliaia di Ebrei vennero salvati perché trovarono ospitalità (ovviamente clandestina) in case private o in conventi, case religiose ecc.
Lo Yad Vashem, l’istituto israeliano di memoria della Shoah, ha riconosciuto a circa 700 italiani il titolo di “Giusto tra le nazioni” per l’opera di salvataggio effettuata.
Tuttavia, la persecuzione antisemita, protrattasi dal 1938 al 1945, rimane come una sanguinante ferita nel corpo della società italiana.
E’ opportuno riflettere sulla lenta, pervasiva propaganda che l’ha preceduta.
Nelle pagine dei libri, nelle illustrazioni e nelle copie anastatiche di manifesti, giornali, riviste, che si possono trovare in tante pubblicazioni e in tante mostre che vengono allestite, facilmente si rinviene la soffocante azione di persuasione che venne operata.
Neppure i settimanali per ragazzi, con i “fumetti” a sfondo razzista ed antisemita, furono indenni da tale opera di avvelenamento dei cervelli, anzi, vi contribuirono con grande efficacia.
E il successo di questa azione avvelenatrice è probabilmente quello che dobbiamo tener presente, temere e combattere anche oggi, dato il facile e diffuso utilizzo dei sistemi di comunicazione attuali.
E’ triste dirlo, ma il linguaggio sta tornando ad avvelenarsi, la storia viene negata, la menzogna si rafforza, nella indifferenza di troppi, nella stolida acquiescenza, nell’ignoranza che trova purtroppo strumenti efficaci per diffondersi senza troppa fatica e troppi contrasti.
Le inutili retoriche, che talvolta finiscono per essere dannose, vanno sostituite da azioni decise di difesa dello stato di diritto, di contrasto alla violenza e da interventi duri contro i linguaggi stupidi, arroganti, violenti.
La scuola, la politica, la magistratura, le chiese, gli uomini di cultura, di spettacolo e del giornalismo: ognuno è chiamato a far la parte che gli spetta.
Oggi come ieri, chi ha a cuore i diritti dell’uomo non può distrarsi.
«Le deportazione degli ebrei in Italia – scrive Liliana Picciotto Fargion nel Libro della Memoria – permette di avere dati aggiornati: gli ebrei arrestati e deportati nel nostro Paese furono 6.807; gli arrestati e morti in Italia 322; gli arrestati e scampati in Italia 451. Tolti quelli morti in Italia, gli uccisi nella Shoah sono 5.791, quindi circa il venti per cento degli ebrei italiani (secondo le cifre fornite dai rabbini-capo tale percentuale salirebbe però a circa il 43 per cento); di 950 persone mancano notizie attendibili per difficoltà di classificazione.»