L’aurora nel giardino scuro: l’orto della gioia

di Francesco Troiano – illustrazione di Filippo Carletti 

Ultima puntata del romanzo breve “L’aurora nel giardino scuro”. Per chi avesse perso le precedenti eccole qui: 1a puntata; 2a puntata; 3a puntata; 4a puntata.

PUNTATA 5 – L’ORTO DELLA GIOIA

Qui non c’erano le case, le soffitte e le piazze dove il pericolo guatava nell’angolo. Qui nessuno mi aspettava a un appuntamento mortale.

Qui non c’era che terra e colline e bastava appiattirsi a terra per vivere ancora”

da “Il fuggiasco” di Cesare Pavese

Fece un cartello improvvisato con scritto “OSPEDALE DI SUSA” e si mise all’inizio della strada che torna ai laghi in pianura con il foglio bene in vista.

Sopraggiunse un BMW di quelli grossi super accessoriati.

Dal buio del vetro fumé che si abbassava, apparve il viso quadrato di un bell’uomo sulla sessantina. Capelli d’argento, occhi azzurri e una parlata con un lievissimo accento tedesco.

“Buongiorno.”

Gregorio si accomodò in un salotto mobile con gli odori di plastica di una macchina nuova.

L’uomo restava in silenzio. Le curve della discesa fluivano come un nastro di fettuccia su un tessuto d’asfalto. Sembrava di stare in una capsula spaziale e il motore era un suono impercettibile.

“Gradisce della musica?” disse l’uomo che, senza attendere la risposta di Gregorio, aveva già messo su “Radio Nostalgia”.

Gregorio accennò a un sorriso, mentre dalla radio volavano le note di “I giardini di marzo”.

“Se non sono indiscreto, come mai l’ospedale di Susa?”

Sprovvisto di una risposta plausibile, Gregorio inventò

“Ho un amico ricoverato”

“Ho capito… mi dispiace… signor?”.

“Gregorio…”

“Gustav, piacere. Scusi se insisto, ma giusto per conversare e poiché lavoro in ospedale, vorrei chiederle in quale reparto è ricoverato il suo amico?”

Gregorio non proferì parola.

Ormai erano in pianura e ben avviati sull’allacciamento per la Val di Susa.

“Radio Nostalgia” nel frattempo, trasmetteva Baglioni.

Gregorio, ruppe la pausa della conversazione.

 “Che lavoro svolge a Susa?”

“Lavoro in Cardiochirurgia” rispose l’uomo che lanciò una bella occhiata a Gregorio.

Era meglio vuotare il sacco prima di fare altri danni.

“Senta signor Gustav… non c’è nessun amico ricoverato. Sono di Milano e faccio lo scultore. Ho una casa qui in Piemonte e da questa casa, un mattino di un mese e mezzo fa, è sparito mio padre, affetto da…”

“Demenze associate…lo so.”

Gregorio lo fissò con un’espressione di sorpresa colma di angoscia.

“Mi scusi… ma come fa a saperlo?”

“Lei sta cercando Antonio Del Canto, giusto?”

“Giusto. Ma scusi lei chi è?”

“Mi chiamo Gustav Rimhenoff”.

La saliva che Gregorio aveva appena deglutito, nell’intestino divenne una di quelle bolle d’aria che premono  facendo un male insopportabile.

“Suo padre era stato il barbiere di mio padre… Nel 1940 erano insieme nel campo sfollati di Chieti, ma con ruoli un po’ diversi: mio padre, Karl Rihmenoff, era il comandante tedesco del campo. Suo padre, lo sfollato, destinato ad Auschwitz.

Per i suoi servigi, ma soprattutto per la sua umanità, mio padre lo salvò. Dopo la guerra, tornato a Berlino, Karl riprese a fare il medico condotto, non preoccupandosi, come fecero molti altri suoi commilitoni, di nascondersi in qualche paese del Sud-america. I servizi segreti israeliani lo rintracciarono come un ragazzino nascosto dietro un muretto. Ormai era fra gli imputati alla sbarra di Norimberga. Parlò al capo dei servizi segreti di suo padre, il quale fu interpellato per chiedergli la conferma delle mie dichiarazioni. Antonio confermò tutto. E così, toccò a lui salvare la vita a Karl. Diedero a mio padre cinque anni di reclusione con la possibilità, dopo due anni, di uscire durante il giorno. Riuscì ad ottenere uno sconto di pena per buona condotta, e non ebbe problemi a riprendere la sua professione. Io, come figlio, ho seguito la strada della medicina, e sapevo tutto di suo padre. Quando maturai la pensione, comprai casa qui in Piemonte. Nel frattempo, un amico mi propose di fare da consulente presso la cardiochirurgia di Susa. Cinque anni fa mio padre morì e con suo padre mantenni io il contatto epistolare. Poi ci siamo persi, perso ogni riferimento, lui non scrisse più. Un giorno, in televisione, vidi la foto di Antonio nel programma “Chi l’ha visto”. Iniziai anch’io a fare ricerche. Arrivai al Santuario di Crea dove una signora mi parlò di un certo Gregorio che stava cercando suo padre. Dal monastero di Torrescano iniziai a pedinarla. Arrivato al castello dell’Arianna ho avuto notizie dal mio collega che un uomo, che rispondeva alle generalità di Antonio, era stato ricoverato a Susa. Come un fulmine tornai in ospedale. Quando arrivai al reparto trovai Antonio in sala di rianimazione in condizioni disperate.

Le montagne scorrevano sul finestrino, e i pensieri di Gregorio si erano trasformati in  lacrime, mani che si asciugava sui pantaloni, camicia… imbarazzante.

Gustav, riprese a parlare.

“Manca una mezz’ora… ci possiamo dare del tu?”

Ora, in quell’ospedale maledettamente lontano dalle sue case, dalle sue abitudini, tutto, ma proprio tutto, si era inceppato.

C’era una finestra che dava sul corridoio e che dava alla stanza numero 36.

Sotto una coperta sfilacciata di nuvole intarsiate, c’era un prato enorme e un trattore che rivoltava la terra.

La porta socchiusa della 36, era un filo di luce sottile.

Gregorio fissava quel numero e non si decideva.

Fece un rapido “sei più tre uguale nove”, e aprì la porta.

L’Antonio, a parte qualche tubo e tubicino infilati a caso, aveva la sua testa calva e brizzolata sui lati, esattamente come due mesi e mezzo prima.

Le guance, la bocca, il naso, le sue rughe e i suoi avvallamenti, tutto invariato, niente da dichiarare. E le mani, come le sue mani.

Gli prese la sinistra che spuntava dalla coperta, con l’ago della flebo infilata. Morbida e calda. La stessa delle carezze prima di addormentarsi. Gliela strinse dicendo: ciao papà.

Un pulsante schiacciò qualcosa nel fondo dell’anima, ed esplose in acqua dagli occhi.

Ripensamenti, odio, mancanze.

Quanto sentiva quell’istante? Almeno l’illusione di aver capito una briciola di qualcosa di quell’uomo.

Una vita a cercarlo. E trovarlo soltanto in quel momento. In quello stesso momento nel quale era in procinto di perderlo.

Non voleva sentire nient’altro al mondo che quel respiro a tempo con i bip dell’elettrocardiografo. Il calore di quella stretta che salì e circolò per le viscere, un messaggio come una brezza di passaggio nella stanza.

“Come stai figlio? Intravedo una stanchezza, ma ora sei qui, vicino a me. Ed è questo quello che conta. Tu non sai quanto mi piace guardare gli aerei in cielo. Li seguo finché  spariscono, ma non ho mai capito dove vadano a finire. Lasciami andare con quell’aereo, ti prego. Non c’è più niente da fare qui. La tua mamma mi aspetta. C’è l’orto della gioia che deve essere bagnato. I fiori hanno bisogno del sole perché sboccino rigogliosi più di prima, e c’è tanto da fare con le stelle e la luna da portare a spasso. Se riesco a salirci, saprò di averti fatto un regalo: dopo anni a controllare ogni direzione di ogni tua strada, ti ho fatto scoprire la bellezza del perdersi. E ora ti chiedo: restituiscimi un grammo di quella sensazione e il tuo amore che vorrebbe trattenermi a te, si moltiplicherà in un amore più grande e più bello, che mi lascerà perdere nell’infinito dei miei giorni e dei tuoi.”

La brezza andò via.

Gregorio si avvicinò alla finestra basculante. Non c’era più il trattore, e due asini erano fermi, sereni nell’orizzonte, con i colli incrociati.

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