di Francesca Radaelli
Il vecchio taccagno colpisce ancora. Sono passati più di 350 anni dal tempo di Molière e oltre due millenni da quello di Plauto, che con l’Aulularia ispirò il commediografo francese, ma L’Avaro resta un grande classico, non solo teatrale, ma anche e soprattutto antropologico. Lo conferma una volta di più la versione della commedia diretta da Ugo Chiti che vede il grande Alessandro Benvenuti nel ruolo di Arpagone e che è approdata in questi giorni al Teatro Manzoni di Monza, dove sarà in scena fino a domenica.
Un adattamento che ha il grande pregio di non tradire il testo di Molière, né tanto meno la cifra tragicomica del personaggio attorno a cui ruota la commedia, ma che nemmeno teme di intervenire su alcuni aspetti del dramma originario. A partire dalla struttura scenica, con i cinque atti ridotti a due e l’aggiunta di prologo ed epilogo, ma anche con una serie di suggestioni e contaminazioni che, come dichiarato dallo stesso regista, arricchiscono Molière con elementi tratti dai conterranei Balzac e Marivaux.
Risultato? Uno spettacolo godibilissimo grazie al ritmo vivace e alla bravura degli attori, Alessandro Benvenuti su tutti, irresistibile nella parte dell’anziano Arpagone ossessionato dalla difesa della propria ricchezza e dalla ricerca di nuovi beni da possedere, ma anche gli interpreti dei numerosi altri personaggi che entrano ed escono dalle stanze – naturalmente spoglie e prive di arredi – della casa dell’Avaro, intrecciati l’uno all’altro da una fitta rete di sentimenti, relazioni e rapporti di parentela, ma tutti sottomessi alla volontà tirannica di Arpagone che impone loro una quotidianità di ristrettezze e sacrifici. La casa è per il vecchio tirchio il primo patrimonio da difendere da ogni minaccia esterna, ma è proprio dall’interno della sua casa che arriva il sovvertimento del sistema di valori del capofamiglia. La figlia si innamora di uno dei servitori, il figlio di una ragazza povera, i piani matrimoniali elaborati dal padre vengono sconvolti e capovolti. E poi, cosa forse ancora peggiore per Arpagone, nella casa viene commesso un furto: la cassa con il tesoro di 10mila ducati dell’Avaro scompare all’improvviso e il responsabile si rivelerà proprio uno ‘di casa’.
Dietro agli abiti seicenteschi dei personaggi l’opera si conferma un classico capace di parlare anche all’uomo e dell’uomo contemporaneo. Vedendo il vecchio Arpagone dominato dalla brama di possesso, intento ad accumulare beni e ricchezze, terrorizzato dalla possibilità che qualcuno dall’esterno possa sottrargli ciò che possiede, non si può non pensare alle paure e alle chiusure che sempre più si fanno strada nel nostro mondo contemporaneo. E al vero grande pericolo, di cui forse non si ha mai abbastanza paura: quello di diventare tanti vecchi Arpagoni, tragicamente chiusi nelle nostre case, comicamente impegnati ad accumulare, e ossessionati dalla paura di perdere ciò che è in nostro possesso. Senza avere nessuno con cui condividerlo.