“Ho pensato immediatamente a lei, a mia figlia, al suo giudizio, al suo stato d’animo, a ciò che avrebbe fatto…”
Ci siamo lasciati settimana scorsa con Sara ed il suo racconto, una storia commovente, ma a tratti deplorevole, che presta il fianco a critiche, anche severe. Ho imparato a non giudicare di primo acchito le persone che incrociano la mia strada, cercando di andare oltre e di carpire l’animo attraverso uno sguardo: a volte di ghiaccio, a volte profondo, a volte indifferente, a volte arrogante.
Ecco perché parlo spesso di Sara e del suo percorso di vita: il suo errore è un monito severo, che rappresenta per lei un punto di partenza per una nuova vita.
Al di là del reato, quale è stato il tuo primo pensiero quando ti si è chiuso alle spalle il blindo di una cella?
Giulia, mia figlia. Ho pensato immediatamente a lei. Al suo giudizio, al suo stato d’animo, a ciò che avrebbe fatto. Pensavo di averla persa per sempre. Non ho pensato ad altro, se non a lei. Non mi importava del luogo, del carcere, del reato… ho pensato intensamente a mia figlia per tutta la notte, senza capire bene dove fossi, cosa fosse accaduto, dove sarei finita, cosa sarebbe accaduto l’indomani. Giulia è stato il mio pensiero fisso per quattro lunghi anni. Ed è anche stata la forza per andare avanti, lottare e uscire da quella cella.
Come hai vissuto a San Vittore? Cosa facevi durante le tue giornate?
Sapevo che sarei andata fuori di testa rimanendo tutto il giorno in cella. Non andavo nemmeno all’aria… mi sentivo soffocare. La cella era più grande e spaziosa rispetto a quel quadrato tra mura altissime. Non parlavo con le compagne di cella, se non per educazione rispondendo a loro domande. Stavo sulle mie. Le donne soprattutto cercano sempre rogne in carcere, un modo per litigare, fare chiasso, attirare l’attenzione, strillare. Io no. Poi iniziai a lavorare per la sartoria. Ho lavorato dalla mia seconda settimana in carcere, sino a fine pena. Ogni giorno. Era l’unico modo per tenere mente e spirito impegnati e sollevati. Cercavo di far passare il tempo più velocemente, perché fuori c’era mia figlia ad aspettarmi. Dovevo riscattare la mia immagine a i suoi occhi, ad ogni costo. Il lavoro, in carcere, è l’unico modo per sopravvivere. Il lavoro e l’educazione, il rispetto per chi ti sta attorno. Perché in fondo devi convivere e condividere gli spazi con altre persone, siano esse agenti o detenuti. Se sei rispettoso, non ti accade nulla. Anzi… probabilmente ero l’unica detenuta alla quale gli agenti si rivolgevano dicendo “Signora S.”
Cosa ti ha lasciato l’esperienza?
Ho capito i veri valori della vita. Ho capito che sono importante per mia figlia. Per la mia famiglia, che non mi ha mai lasciata sola. Ho capito che la vita è difficile e a volte ti mette di fronte a situazioni dalle quali è faticoso uscirne. Bisogna crederci e lottare. Ho capito che quando vuoi una cosa devi fare di tutto per ottenerla. Io volevo uscire da quella cella e riconquistare mia figlia. Non basta volere una cosa, bisogna fare in modo che questa cosa si concretizzi e devi fare di tutto perché ciò accada. Con determinazione. La determinazione ti porta lontano, ed in questo viaggio non bisogna mai perdere di vista se stessi.
Jenny Rizzo