di Francesca Radaelli
Una storia più incredibile dell’altra. Eppure tutte vere. Le donne raccontate da Viviana Daloiso lo scorso lunedì 25 novembre – nel terzo incontro del ciclo “Donne per la pace” di Caritas Monza – sono state capaci di rendere possibili cose che sembravano decisamente improbabili.
La pace, per esempio.
Punto di partenza della serata è il libro scritto da Viviana Daloiso, giornalista di Avvenire, insieme alle colleghe Antonella Mariani e Lucia Capuzzi: “Donne per la pace. Voci che hanno cambiato la storia”. Al suo interno le interviste realizzate dalle giornaliste a donne di diversi Paesi che sono state protagoniste dei processi di pace, a vari livelli.
Introducendo la serata il giornalista Fabrizio Annaro sottolinea l’importanza della ricorrenza del 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: una sfida, dice Annaro, che coinvolge anche le figure maschili e che interpella tutti.
La violenza pervasiva
La giornalista Donatella Di Paolo, che conduce l’incontro, ricorda in apertura i dati sulle uccisioni delle donne: ogni tre giorni in Italia viene uccisa una donna, nel mondo una ogni dieci minuti. E ha ricordato le parole del padre di Giulia Cecchettin, Gino: “Mi appello ai maschi: combattiamo la violenza dentro di noi”.
“Questa parola, violenza, è la chiave di tutto”, riflette Donatella Di Paolo, “è ciò che porta alla guerra, alle armi, alla distruzione, agli stupri. Tutto ciò porta a un panorama disumano. Le donne sono chiamate in causa perché invece di usare queste parole – guerra, armi, violenza – portano avanti un altro discorso”. Un discorso in cui si mira a “ricucire”, come afferma una delle donne protagonista del libro.
L’origine del progetto
Proprio dalla volontà di dare spazio a questi discorsi e a queste voci nasce l’idea del libro di Viviana Daloiso.
“Insieme alle colleghe Lucia Capuzzi e Antonella Mariani abbiamo iniziato a lavorare insieme intrecciando interessi diversi”, racconta la giornalista. “Lucia Capuzzi si occupa di Esteri da inviata sui luoghi dei conflitti, Antonella si è sempre occupata di tematiche relative ai diritti delle donne, io venivo dal mondo dell’attualità, ho lavorato alla cronaca nazionale e ho quindi seguito il tema dei femminicidi e della violenza di genere”.
Le loro strade si sono incrociate per la campagna sulle donne afghane, realizzata attraverso Avvenire nel 2023. “Dopo la fortuna di questa campagna, l’anno dopo, in vista dell’ 8 marzo, abbiamo iniziato a guardare ciò che stava accadendo intorno a noi, in un momento in cui si stavano consumando i due grandi conflitti in Ucraina e Medio Oriente, oltre alle circa 150 guerre che insanguinano attualmente il pianeta. Ci accorgevamo in maniera sconfortante che ai tavoli dei concordati le donne non sono quasi mai sedute. All’assemblea dell’Onu il 90% degli speaker erano uomini. Poi il primo gennaio 2024, giornata mondiale della pace, sentiamo questa frase pronunciata da papa Francesco: “Il mondo ha bisogno di guardare le donne per trovare la pace, per uscire dalle spirali della violenza e dell’odio e tornare ad avere sguardi umani e cuori che vedono”. Queste parole hanno cambiato la nostra prospettiva. Ci siamo chieste: ci sono state donne che hanno partecipato a processi di pace? Abbiamo scoperto che quasi in ogni Paese potevamo trovare una donna che avesse avuto un ruolo importante nella risoluzione di un conflitto. Abbiamo quindi deciso di entrare in contatto con loro, cercandole, e siamo riuscite a intervistarne una ventina”.
Un modello “femminile” per la pace
Il modello “maschile” è un modello di prevaricazione del più forte sul più debole, modello di applicazione della forza nella dimensione relazionale. “Il modello femminile è un modello di conciliazione, riconciliazione, accoglienza della vita. La donna, anche nelle famiglie, spesso è colei che tenta di risolvere i conflitti, trovare un accordo. È vero anche però che il modello maschile di forza spesso viene assunto dalle donne di potere”.
Secondo dati Onu, riporta Viviana Daloiso, quando le donne hanno partecipato a processi di pace, la pace è stata più duratura e nelle trattative sono entrati discorsi su educazione, sanità, riconciliazione, che invece non entrano nelle trattative maschili.
Nei paesi africani insanguinati dalla guerra, le donne sono spesso scese in piazza affrontando i guerriglieri, con una richiesta, fortissima nella sua semplicità: che i figli possano andare a scuola.
Spesso hanno dovuto lottare contro i più classici degli stereotipi per farsi ascoltare: Monica McWilliams, in Irlanda del Nord, volendo partecipare al tavolo dei negoziati, si sente rispondere di andare piuttosto a casa a cucinare.
La presenza delle donne a questi tavoli, in realtà, è preziosissima: soprattutto perché le donne sanno perdonare, come ha dimostra in Rwanda Godelieve Mukasarasi, che dopo aver perso il marito e la figlia in guerra, ha fondato un’associazione per accogliere le vittime degli stupri e farle parlare con i loro ex aguzzini.
Da vittime ad agenti di cambiamento
La sfida di mettere seduti a un tavolo vittima e carnefice, di ricucire lo strappo, porta verso l’idea di giustizia riparativa. Proprio in questo ambito si colloca la vicenda dell’italiana Daniela Marcone, oggi vicepresidente di Libera, che ha perdonato coloro che le hanno ucciso il padre ed ha scelto di confrontarsi con loro. Solo così, dice Viviana Daloiso, ha sentito di poter recuperare il senso di umanità che sentiva di aver perso. Daniela ha avuto coraggio, anche rispetto ai propri familiari, nel portare avanti il proprio percorso. “Le donne che abbiamo intervistato spesso hanno fatto fatica a essere capite dai loro uomini, dalla loro famiglia”, spiega Viviana Daloiso. “Contro il parere della famiglia, Daniela ha voluto riacquistare la casa dove viveva il padre. Ora è un luogo dove i bambini delle scuole entrano per conoscere la storia di suo padre, seduti sui gradini della scala dove è stato ucciso”.
Spesso partiamo dal presupposto che le donne siano vittime, “ma le donne per la pace sono protagoniste”, sottolinea Viviana Daloiso. “Nella violenza hanno trovato la forza per costruire qualcosa: la violenza è diventata generativa, la vittima è diventata protagonista, attrice. In questo modo la violenza non ha l’ultima parola: dall’orrore si può uscire agendo, diventando agenti di pace per il cambiamento”.
Questo modello è incarnato dalle donne per il loro ruolo nella storia e nelle dinamiche relazionali, ma la sfida è che diventi un modello anche per gli uomini. “È quello che è accaduto al padre di Giulia Cecchettin”, afferma Daloiso. “Un nuovo modo di concepire il relazionarsi con gli altri, in cui non dev’esserci per forza un vincitore, né il più forte. L’obiettivo è dialogare, accettare che ciascuno possa rinunciare a qualcosa per trovare una mediazione”.
Le voci delle donne per la pace
Le parole delle donne per la pace raccontano nel modo più eloquente questo modello. Godelieve Mukasarasi in Rwanda risponde all’odio e alla vendetta con l’amore incondizionato. È lei la vera protagonista della pace tra Tutsi e Hutu. Così ha spiegato le sue scelte: “Se Dio mi ha salvata era perché rispondessi all’odio e alla sete di vendetta con l’amore incondizionato. Così è nata la mia associazione, abbiamo accolto le vittime e poi anche i loro aguzzini, li abbiamo fatti parlare, abbiamo ricucito le ferite del nostro paese”. In effetti, la riconciliazione del paese si è basata su questo laboratorio.
Shirin Ebadi, iraniana, la prima musulmana a ricevere il Premio Nobel per la pace, alla domanda, “Che cos’è per te la pace?”, risponde che per lei la pace è sentire suonare il campanello alla mia porta e scoprire che “un amico è venuto a trovarmi, non una guardia ad arrestarmi”, è poter indossare “qualunque vestito abbia voglia di mettere”, è andare al ristorante senza che la folla affamata “mi guardi con invidi”, è “svegliarmi alla mattina felice di essere ancora viva, e non vittima di un attentato”.
Queste invece le parole di un’altra Nobel Pace, l’irachena Nadia Murad, venduta e stuprata perché appartenente alla minoranza Yazida: “Avevo giurato a me stessa che sarei stata l’ultima”. Non lo è stata, purtroppo, ma si è impegnata con la sua associazione contro gli stupri di guerra, ancora attuali sia in Medio Oriente che in Ucraina.
“In Medio Oriente sono proprio le donne ad essere più lucide nel processo di riconciliazione”, spiega Viviana Daloiso. “C’è una forte richiesta di pace incarnata dalle donne delle associazioni, che viene completamente silenziata. Non c’è una donna nel governo israeliano di Netanyahu che prenda parte alle decisioni sul conflitto in corso a Gaza. Nella scuola del villaggio di Neve Shalom (di cui abbiamo parlato qui) invece sono state proprio le mamme a ricucire i conflitti entrati anche qui dopo il 7 ottobre. Lavorando sulla formazione delle mamme come “mediatrici”, si è riusciti a tenere insieme la scuola”.
Miriam Coronel-Ferrer è stata la prima donna a firmare il trattato di pace con i guerriglieri nelle Filippine: racconta di aver offerto loro cioccolatini, di essersi sforzata di ricordare i compleanni delle loro mogli. Anche entrare in punta di piedi e con gentilezza è una caratteristica del “modello femminile” di relazionarsi con gli interlocutori. Aggiunge infatti Viviana Daloiso: “Attualmente in Afghanistan i Taliban si mostrano disposti a parlare con le donne occidentali delle Ong che cercano di operare per i diritti delle donne afghane, soprattutto per il fatto che si propongono in modalità dialogante e mediatrice”.
La difficile strada della pace
Certo la guerra è più facile. Anche in casa o in ufficio. “Bisogna invece convincerci che la pace è difficile, va costruita, è un lavoro”, sottolinea Viviana Daloiso. Soprattutto non può che passare attraverso il dialogo e la mediazione. Ossia attraverso caratteristiche considerate appartenenti a un approccio “femminile”.
Non solo. “Proprio perché messe sempre in disparte”, aggiunge Viviana Daloiso, “le donne portano con sé le istanze dei bambini, delle persone ai margini, delle minoranze. L’idea che viene fuori dal libro è che la pace sia qualcosa che si costruisce e che viene fuori dal basso. Nessuna di queste donne è partita dal parlamento o dal governo. È dal basso che può nascere un fermento che può creare un cambiamento e una conciliazione”.
Proprio quest’ultima considerazione apre alla speranza. Come sottolinea Fabrizio Annaro, concludendo la serata, tutti, uomini e donne, siamo chiamati a vincere la rassegnazione e a provare a costruire la pace “dal basso”.
Partendo dal basso, dalla posizione di “vittime”, le “donne per la pace” qualche risultato lo hanno ottenuto. Le loro piccole storie possono forse aprire una strada diversa da quella percorsa dalla grande Storia fino ad ora.
Una strada faticosa, difficile, impervia. Ma su cui possiamo scegliere di incamminarci.