Le Idi di marzo e quella frase mai pronunciata

di Francesca Radaelli

Tu quoque Brute, fili mi. Secondo la tradizione questa frase fu pronunciata da Giulio Cesare nel momento in cui venne pugnalato a tradimento, il 15 marzo dell’anno 44 a.C., da un gruppo di congiurati tra cui c’era anche il figlio adottivo Marco Giunio Bruto. Si tratta delle celebri Idi di marzo, divenute sinonimo di tradimento inaspettato e gravissimo, del tradimento di un figlio nei confronti del proprio padre.

Con il termine “Idi”, plurale del sostantivo femminile della quarta declinazione “idus”, veniva indicato in latino per lo più il tredicesimo giorno del mese, con l’eccezione di maggio, giugno , ottobre e marzo appunto, in cui le Idi cadevano il quindicesimo giorno. Come le Calende (primo giorno del mese) e le None (ora quinto ora settimo giorno)  le Idi erano in origine legate al ciclo lunare, indicando la fase di luna piena. Poi con il tempo e attraverso diverse riforme (tra le più importanti ci fu proprio quella di Giulio Cesare), il calendario romano diventò solare e il rapporto con le fasi lunari si perse, pur rimanendo nel nome delle indicazioni di tempo.

Erano circa sessanta i senatori che il 15 marzo del 44 a.C. compirono l’assassinio che passerà alla storia come Cesaricidio. A muoverli fu la paura e l’amore per le istituzioni repubblicane della Roma antica. La loro finalità era stroncare sul nascere la minaccia rappresentata dal forte potere personale conquistato da Giulio Cesare da “dittatore”, che temevano potesse portarlo a incoronarsi “Re di Roma”. Ma tra  i “cesaricidi” c’erano anche alcuni personaggi che a Giulio Cesare dovevano molto – se non tutto – della loro fortuna politica, tra i quali Gaio Cassio Longino e, appunto, Marco Giunio Bruto.

Vincenzo Camuccini, "Morte di Cesare", 1798,
Vincenzo Camuccini, “Morte di Cesare”, 1798.

Venendo alla celebre frase pronunciata in punto di morte da Cesare, in realtà lo storico Svetonio, tra le fonti principali per ricostruire l’episodio, racconta che Giulio Cesare morì sotto i colpi di ventitré pugnalate, avvolgendosi compostamente la tunica addosso ed “emettendo un solo gemito al primo colpo, senza una parola”. Lo stesso Svetonio aggiunge però: “alcuni hanno raccontato che, a Bruto che gli si avventava contro, egli disse: ‘καὶ σύ, τέκνον;’”, che in greco sarebbe “anche tu figlio?”. Nessuna traccia però del famoso “Tu quoque?”, non qui almeno. Ma neanche nel Giulio Cesare di Shakespeare, dove, nel momento in cui viene pugnalato, Cesare si rivolge sì a Bruto, in latino però, e con parole un po’ diverse: “Et tu, Brute?”.

Insomma non solo il celebre “Tu quoque” probabilmente non fu mai pronunciato, ma non è nemmeno chiaro quando e come sia nata e si sia diffusa la tradizione relativa a questa frase. Le uniche cose certe sono che, dopo  che Cesare fu assassinato in nome della repubblica, Bruto e Cassio furono messi fuori gioco da Ottaviano e Roma si trasformò in un principato. E che una frase mai pronunciata è diventata un simbolo e un detto proverbiale. Se non è tradimento questo…

 

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