di Laurenzo Ticca
23 ottobre 1956. Una manifestazione studentesca lascia l’università di Budapest per dare vita a un corteo pacifico. E’ l’innesco di quella che passerà alla storia come la Rivoluzione Ungherese. Per quegli imprevedibili scarti della storia quel corteo ben presto cambierà segno, si trasformerà nel catalizzatore di rancori repressi, di libertà soffocate, di illusioni perdute. Studenti e operai , armi in pugno, cercheranno di riconquistate la libertà consegnandosi ad un destino che aveva riservato loro una drammatica sconfitta.
Anno tragico il 1956 per il movimento operaio. Aperto dalla denuncia dei crimini di Stalin si concludeva con il massacro di Poznam e il sangue versato nelle strade di Budapest. Un mondo che aveva suscitato entusiasmo e alimentato speranze appariva ormai sclerotizzato, incapace di coniugare socialismo e libertà , imprigionato nelle ferree leggi della dittatura comunista.
Il ’56, insomma, non fu solo dramma di un popolo. Fu il fallimento di un grande progetto politico. La rivolta ungherese fu soffocata dall’intervento dei carri armati sovietici, dalla repressione, dall’arresto e dalla impiccagione di uomini che, come Imre Nagy, avevano incarnato la speranza di riscatto delle idee socialiste.
Il sangue versato a Budapest scosse la sinistra europea. In Italia i socialisti di Nenni compresero la portata degli eventi. L’Unità , organo del Pci , parlò di controrivoluzionari e in un editoriale rivendicò orgogliosamente la scelta di campo a favore di Mosca. Una scelta che lacerò il partito. Un gruppo di intellettuali scrisse il “Manifesto dei 101” nel quale si criticava la repressione della rivolta ungherese. Uomini come Antonio Giolitti, Furio Diaz e Luciano Cafagna presero le distanze dal Pci. Palmiro Togliatti cicatrizzò la ferita ricorrendo a tutto il suo carisma. L’appuntamento con la storia era solo rinviato. La caduta del Muro di Berlino sarebbe arrivata tre decenni dopo.
Anche il mondo intellettuale vicino al Pci si lacerò. Molti si piegarono alle ragioni di partito, altri compresero ciò che era già evidente da tempo.
Italo Calvino, con la lucidità e la preveggenza dei grandi, aveva già scritto pagine inequivocabili sui deliri alimentati dalle ideologie e il doloroso disincanto che il ritorno alla realtà genera.
Ne “ Il Visconte dimezzato” si legge: “ Già le navi stavano scomparendo all’orizzonte e io rimasi qui in questo nostro mondo pieno di responsabilità e di fuochi fatui”.