Le vite invisibili degli apolidi

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di Francesca Radaelli

In Europa sono 600mila. In Italia si stima che il loro numero si aggiri intorno alle 15mila persone. Si chiamano apolidi, e l’etimologia di questa parola è abbastanza trasparente. La ‘a’ è privativa e vuol dire ‘senza’. Ciò di cui queste persone  sono prive è la ‘polis’, ossia la cittadinanza, quello status che dall’antica Grecia sino ad oggi consente di partecipare alla vita di una comunità politica. Sembra una contraddizione in termini ma queste persone esistono.

L’idea di non appartenere a nessuno stato, tra l’altro, potrebbe sembrare ad alcuni anche romantica (poetico e rivoluzionario poter dire di appartenere al mondo e a nient’altro, o anche a nessun altro che a se stessi, a seconda dei gusti), conveniente ad altri (“finalmente niente tasse…”), oppure surreale, kafkiana, pirandelliana (alle persone colte e ‘studiate’). Ma di fatto, nella vita pratica, non avere diritti di cittadinanza non è sicuramente un gran privilegio, per usare un eufemismo. Impedisce di fruire di tutti i servizi che ogni stato dovrebbe garantire ai propri cittadini, dalla scuola alla sanità, ma anche la possibilità di lavorare e avere una casa. Diritti che, in un mondo in cui per esistere c’è bisogno di un pezzo di carta che lo confermi, sono negati a coloro che non hanno un documento che definisca chiaramente la loro identità.  Ossia agli apolidi.

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Il pericolo è che il loro numero aumenti vertiginosamente nell’Europa attraversata dai flussi di migranti in arrivo da paesi come la Siria, in cui la legge prevede che le madri non possano trasmettere la cittadinanza ai propri figli, ma possa farlo solo il padre. Se, per intenderci, un bambino nasce in Italia, ma il padre non c’è più e la madre è sola, quel bambino non potrà essere riconosciuto come siriano, ma non sarà nemmeno italiano.

L’apolidia si tramanda per generazioni e a pagarne le conseguenze sono spesso proprio i bambini. Nel recente passato del nostro Paese, questa condizione  ha riguardato soprattutto le famiglie sfollate dalla ex Jugoslavia, in cui i figli hanno ereditato la condizione di apolidia dai loro genitori o si sono ritrovati con una nazionalità incerta. Rappresentano la seconda o terza generazione e, per varie cause, non hanno avuto accesso a uno status riconosciuto. Si trovano in una condizione di sostanziale irregolarità e per questo non possono neanche ottenere la cittadinanza italiana, esclusi da ogni tipo di diritti di cittadinanza.

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Ad accendere i riflettori sulla questione, un dramma sociale ma anche un problema giuridico decisamente rilevante, è ora il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir) che ha annunciato qualche settimana fa l’avvio del progetto Listening to the sun, realizzato con il sostegno della Open Society Foundations in Italia. L’obiettivo è realizzare una campagna di sensibilizzazione sulle difficoltà che incontrano le persone apolidi nella vita quotidiana, causate dall’impossibilità pratica di accedere a un riconoscimento legale della propria condizione. E quale modo migliore se non raccontare le storie di queste persone? È quanto fa il sito www.nonesisto.org, attorno cui è imperniata la campagna #NonEsisto, che attraverso i video e le foto di Denis Bosnic fa luce sulle vite ‘invisibili’ di Nyima, Sandokan, Elena e Ramadan.

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Un’esistenza negata, e ancor di più quando, come accade in Italia,  lo stesso riconoscimento dello status di apolide risulta praticamente impossibile, a causa di procedure inaccessibili. Sono solo 606 persone hanno uno status di apolidia riconosciuto nel nostro Paese, ma i veri apolidi sono molti di più e riconoscerne l’esistenza sarebbe già un passo avanti.

Intanto, finalmente qualcosa si sta muovendo anche in Parlamento. Proprio da queste riflessioni, infatti, e con la finalità è mettere a punto una procedura semplice e accessibile per il riconoscimento dello status di apolidia, ha preso le mosse il Disegno di legge sul riconoscimento dello status di apolide, presentato lo scorso 25 novembre 2015 dalla Commissione Diritti Umani del Senato in collaborazione con lo stesso Consiglio Italiano per i Rifugiati e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).

Francesca Radaelli

Fotografie Denis Bosnic

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