di Marco Riboldi
E’ passata quasi una settimana dall’intervista che papa Francesco ha rilasciato a Fabio Fazio.
Si sono ormai depositate le polemiche (non poche e non gradevoli) e anche i commenti eccessivi, nel bene e nel male.
E’ forse il momento di riprendere qualche tema e qualche sollecitazione, cosa che nel mio piccolo tento di fare.
Il quadro degli argomenti trattati da un lato non si scosta dalle preoccupazioni che quasi quotidianamente vengono manifestate dal Santo Padre: la follia della guerra, la criminale indifferenza per le tante tragedie umane che costano vite umane in più di un angolo del pianeta, l’ingiustizia che riempie il mondo di disuguaglianze sempre meno accettabili, la necessità di difendere il creato.
Ma, tra tutto questo, altro si può osservare.
Il primo punto è che il Pontefice si è messo in gioco in una forma inusuale, accettando di porsi su un livello che apre alla discussione, al dissenso, alla critica: utilizzando uno strumento come la televisione, inevitabilmente il papa scende in mezzo a noi.
E questo non è cosa da poco, anzi.
Come diceva un illustre studioso, il mezzo è il messaggio: un papa che entra nel nostro salotto la domenica sera non è più la figura lontana che in modo un po’ misterioso si contempla lassù, alla finestra di piazza San Pietro.
Non si tratta certo di cosa nuova: papa Leone XIII nel 1896 sorprese (e un po’ scandalizzò) la Curia romana accettando di essere filmato; Pio XII fu protagonista di insolite uscite dal Palazzo Apostolico per portare conforto e benedizione a quartieri romani bombardati nel 1943; e i papi più moderni, da Giovanni XXIII in poi, intensificarono le loro uscite dai Sacri Palazzi, andando verso il loro popolo.
Questo andare verso gli altri, incontrare, è la cifra più caratteristica di papa Francesco, che non a caso indica con la frase “Una chiesa in uscita” il suo modello di comunità cristiana.
Ad alcuni non piace questo atteggiamento, che pare loro una diminuzione della sacralità del pontificato. A me, viceversa, sembra l’unica possibile interpretazione della moderna azione pastorale.
Cos’altro è infatti la pastorale se non il parlare in modo nuovo dei valori di sempre, usando i linguaggi, gli atteggiamenti, le modalità più consone ai tempi e ai luoghi. ormai diversi da quelli in cui il messaggio evangelico è nato?
Come parlare di Gesù a chi oggi parla, sente, comunica in modo tanto differente dal tradizionale?
Un Vescovo che posso chiamare amico ha scelto quale suo motto episcopale una frase di Sant’Ambrogio: “Loquamur Dominum Jesum”, più o meno “raccontiamo il Signore Gesù”: ecco, la questione è questa.
Come raccontare con parole e con gesti il Signore Gesù all’uomo di oggi, se non rinnovando l’esserci della chiesa nel mondo?
C’è poi anche il modo tutto “bergogliano” di interpretare questo “uscire”.,
La bellissima spiegazione fornita domenica sera della carità come il luogo dell’incontro fisico con l’altro, ci ha fatto capire come l’amore cristiano non possa essere asettico: se dai un soldo ad un povero devi toccargli la mano, cercare i suoi occhi, essergli fisicamente vicino.
Personalmente sento un grande rimprovero in queste parole e credo di non essere l’unico che se lo merita.
Forse ci siamo abituati in tanti ad una comunicazione un po’ fredda, magari molto precisa nel contenuto, ma piuttosto arida nelle modalità di partecipazione.
Il papa ci ha spiegato che questo atteggiamento cela una malattia morale: e lo ha fatto anche raccontando in prima persona la sua difficoltà a vivere isolato, senza incontri continui.
Ci ha detto che questa sua necessità di relazione lo ha portato a vivere a Santa Marta, un luogo più aperto rispetto alle stanze vaticane.
Altri due cenni ai contenuti della intervista.
Mi ha colpito moltissimo il ragionamento svolto sul “diritto al perdono”, che non è un facile buonismo. Il papa ha detto con chiarezza che se uno ha provocato un danno ai fratelli deve in qualche modo rimediare: ma questo non significa che lui, in quanto colpevole, non abbia il diritto di incontrare la comprensione e il perdono degli altri (e di Dio).
Il padre del figliol prodigo (come tutti i padri, mi permetto di aggiungere) non vede l’ora di perdonare: non dirà al figlio che ha fatto bene a fare quel che fatto, senza dubbio gli chiederà di tornare al duro lavoro quotidiano, ma non gli negherà mai il suo abbraccio.
L’altro cenno lo dedico alla bella frase sugli uomini che non devono mai guardare un’altra persona dall’alto al basso, se non per aiutarla ad alzarsi quando è caduta.
Qui papa Francesco ha trovato anche un tocco di poesia: bella l’immagine che ha evocato. Un uomo sta più in alto dell’altro, ma questo avviene perché lo sta aiutando ad alzarsi: difficilmente si potrebbe trovare qualcosa di meglio per indicare il servizio al fratello da parte di chi per ragioni varie si trova in una situazione di privilegio, per censo, per cultura, per potere.
Ci sarebbero ancora moltissime cose da sottolineare.
Indico qui almeno un altro argomento: il ragionamento intorno alla vita della Chiesa.
Ma il tema è molto complesso, anche a volerlo trattare non da esperti (quale peraltro non sono), ma da semplici cristiani che tentano di riflettere.
Sarà il tema di un prossimo intervento.